Diletta Leotta a Sanremo: di spacchi, colpevolizzazione della vittima e autodeterminazione

Diletta Leotta a Sanremo: di spacchi, colpevolizzazione della vittima e autodeterminazione

Poche cose mi interessano meno di Sanremo. No, non sono snob: è che proprio non ho la pazienza di stare di fronte al televisore per più di un’ora, figuriamoci per una roba che ha un principio di serialità e che ruota attorno, peraltro, a cose che mi interessano ancora meno di Sanremo stesso.

Persino i vestiti, che sono una cosa che di solito attira in maniera consistente la mia attenzione, rubano al mio zapping convulso pochi istanti: il tempo di dire: è bello/è brutto/fa volgare, e me li sono dimenticati.

Una cosa che normalmente, invece, mi ruba abbastanza tempo ed energie è spiegare ai giovani – ed in particolare alle giovani donne – che esiste una cosa chiamata autodeterminazione. Che non è un vestito, un atteggiamento, un modo di fare a decidere cosa sia una persona e che, soprattutto, non sia nessuna di queste cose a decidere se si è meritevoli o meno di qualcosa. Che i miei gusti sono, per definizione, solo e soltanto miei e che non sono categoria probante del bene e del male.

L’autodeterminazione è un diritto: significa decidere di sé e del proprio destino nei limiti della libertà altrui e della legge.  Mi piace quello che fai? Forse sì, forse, no; ma se non stai commettendo un crimine e non stai facendo qualcosa ai miei danni, potrò al massimo andare a piagnucolare dal mio parrucchiere.

L’autodeterminazione è uno status quo, sei tu che decidi di affermarla per te stesso: è assai insolito, e profuma di fascismo, pensare che il diritto all’autodeterminazione possa essere concesso nella sostanza, nei tempi o nei modi. Che poi è quello che successo ieri alla povera Diletta Leotta, giornalista di Sky particolarmente nota per l’oggettiva avvenenza e per il furto di qualche mese fa di alcuni suoi scatti intimi.

La Leotta, invitata per dire la sua in occasione della Giornata contro il Bullismo, pur nella vergogna e nel dolore del momento, non si è tirata indietro e ha denunciato il sopruso subito: ha quindi invitato tutti coloro che si trovino nella stessa situazione a fare altrettanto.

Bene, brava, bis. Il punto è che la giovane Leotta ha ben pensato di portare sul palco dell’Ariston questa sua importante testimonianza indossando un vestito decisamente poco minimal: corpetto strizzato, gonna con maxi spacco e nessuna intenzione di nascondere le proprie grazie.

È così avvenuto che Diletta Leotta, dall’essere palesemente una vittima – degli hacker, dei maiali che hanno condiviso le sue foto, di chi ha riso di lei – è divenuta colei che parla di privacy con la patata al vento. La giustiziera con le tette da fuori. Ma guardala che incoerente! Prima si lamenta che diffondono le sue foto nature e poi non si veste per andare in televisione!

Prendiamo ad esempio, sicuramente per ultimi, il tweet che Caterina Balivo ha dedicato a Diletta Leotta. Perchè, ricordiamolo, scegliere di mettere uno spacco è un reato contro la privacy.
Prendiamo ad esempio, sicuramente per ultimi, il tweet che Caterina Balivo ha dedicato a Diletta Leotta. Perchè, ricordiamolo, scegliere di mettere uno spacco è un reato contro la privacy.

Opinionisti, maitre a penser più o meno discutibili e donne di spettacolo più o meno vicine al tema dell’emancipazione femminile si sono espressi sulla questione con poco garbo e, soprattutto, nessun rispetto di una vicenda umana assai dolorosa.

Fatemi spiegare qui, in pochi punti, dov’è il tremendo bias cognitivo che ci porta a pensare che una donna poco vestita sia una donna che merita un atteggiamento così terribile.

Lo spazio personale, ossia Se lo puoi vedere non è detto che sia tuo

Goffman definisce lo spazio personale come “lo spazio che circonda un individuo, dove la presenza di altri viene percepita come una violazione che provoca disagio e induce ad allontanarsi[1].

Sappiamo tutti cosa intende Goffman: chi non sopporta di essere toccato sulle braccia, chi si sente a disagio quando vede i propri oggetti spostati, chi non tollera un contatto visivo prolungato.

Posso definire i miei spazi personali anche con l’interazione: se IO, in scienza e coscienza, ti mando le foto del MIO culo, posso dire con certezza che siamo intimi; se IO mando le foto del mio culo a tutta la mia rubrica, vuol dire che non ho problemi né col mio culo né con i miei amici, e va ugualmente bene; se qualcun altro manda foto private del mio culo in giro beh, abbiamo un problema. E questo a prescindere dal fatto che io tenda a mostrare o meno il mio culo in giro.

In conclusione: posso andare in giro vestita da palombaro, da Wonderwoman o essere completamente nuda, ma sono comunque io a decidere se e come le mie immagini private di nudo debbano girare. Dio, ma lo stiamo davvero dicendo?

La colpevolizzazione della vittima

Se l’è cercata”. Quante volte lo abbiamo detto, pensato, o lo abbiamo sentito dire?

Ma cosa vuol dire “cercarsela”? Posso cercarmi una promozione, se studio; una faccia di schiaffi, se sono provocatoria e indisponente; una sbronza, se mi ubriaco. In molte cose, ci sono evidenti rapporti causa/effetto; ancora più spesso ci sono correlazioni.

Cos’è una correlazione? Vi faccio un esempio liberamente tratto dalla mia autobiografia: all’aumentare dei dolci a casa mia aumenta il mio girovita. Questo perché ingrasso per osmosi? No, perché ad un certo punto me li infilo in bocca: non basta la loro compresenza con la mia persona incolpevole. Eppure posso garantire che mai,e dico mai, dei cioccolatini mi sono saltati in bocca. La correlazione è quindi, in breve, “la possibilità che in concomitanza di un evento ne avvenga un altro”. Ripetiamo insieme: non è un rapporto di causa/effetto, ma di concorrenza di più variabili.

Molti uomini si dicono irresistibilmente attratti dalle donne che infastidiscono per strada, ma sono abbastanza convinta che la correlazione tra la presenza di donne in un luogo X e la molestia sia abbastanza debole: quali possono essere quindi altri eventi concomitanti? Donne da sole? Un branco di uomini? Un abbigliamento provocante?

La risposta è che dietro le molestie c’è solo una causa: la presenza di un molestatore. Alcuni elementi fungono da rinforzo positivo (ad esempio, altri uomini che esaltano le “doti” del loro amico), altri ancora possono rappresentare una facilitazione (donne in piccoli gruppi o sole), altri infine sono ormai riconosciuti universalmente come giustificazioni “valide” (un abbigliamento alla “Leotta”, per capirci.

Purtroppo, la psicologia ingenua tende a fare di tutta l’erba un fascio, e tutti questi elementi diventano cause non solo verosimili, ma anche rinforzate dalla comunità. Poter prevedere l’occorrenza di un evento ci serve ad esorcizzarlo: e pensare che possiamo mettere in campo delle strategie per evitarlo, che possiamo insegnarle alle nostre figlie, ci rassicura. Quindi dobbiamo pensare che solo le zoccole saranno molestate, e che le zoccole sono quelle che hanno un aspetto vistoso. Purtroppo la realtà ci insegna ben altro, ma dire che qualcun altro è cattivo è sempre terapeutico.

In realtà…

L’abbigliamento non ci definisce: può aiutarci ad assomigliare all’immagine che abbiamo di noi (più sensuale, timida, spiritosa..), ma non dice nulla di più

Essere sexy e volerlo dimostrare è legittimo, e non c’è nulla di male

Il fatto che gli uomini ribadiscano certe convenzioni sociali è terribile; il fatto che le donne facciano altrettanto è semplicemente suicida.

[1] Goffman, E., Interaction ritual. Essays on face-to-face behavior, New York 1967 (tr. it.: Il rituale dell’interazione, Bologna 1988).

Il Mann lancia Father and son: quando lo storytelling si fa con i videogiochi

Il Mann lancia Father and son: quando lo storytelling si fa con i videogiochi

Diciamoci la verità: se oggi apprezzi i musei, non è detto che tu lo abbia fatto anche da piccolo.

Ricordo distintamente quando, durante le gite scolastiche, con un pesantissimo zaino sulle spalle e oltre 20 testoline davanti alla mia, fingevo di interessarmi a cose che non capivo (sì, sono una paracula since 1983).

Merito di questo scarso amore per l’arte fu probabilmente l’assenza di strumenti che mi avvicinassero effettivamente ad essa, ad una comprensione di quello che mi si parava davanti: l’età, la curiosità per la storia ed il senso estetico che pervade ogni molecola della mia esistenza hanno permesso il mio riavvicinamento ai musei ben dopo i 20 anni, e certamente non potrei definirmi un’esperta.

Quindi, lodi al Mann (Museo Archeologico Nazionale di Napoli) che ha prodotto un videogioco, destinato a un pubblico di tutte le età.

“Father and Son”, questo il titolo del videogame, rappresenta un’esperienza unica a livello mondiale: mai un museo si era infatti spinto così tanto nella battaglia tra il mondo delle belle arti e quello della tecnologia.

Uno storytellig di classe che viaggia attraverso le epoche
Uno storytellig di classe che viaggia attraverso le epoche

Trait d’union tra due galassie così distanti sarà, come spesso capita, la bellezza; nello specifico, la bellezza di Napoli, con le sue celebri opere e l’architettura dei suoi luoghi: ben tre chilometri di strade napoletane sono state disegnate a mano per la realizzazione del videogioco, con una precisione ed un’attenzione al dettaglio quasi commoventi.

Altrettanto importante sarà la storia dietro alla (bellissima) grafica: come suggerisce lo stesso titolo, Father and Son intende raccontare i rimpianti di un archeologo troppo innamorato del proprio lavoro per accogliere nel suo cuore la propria famiglia, e la recherche du temps perdu, di un figlio che, a partire dagli appunti nascosti al Museo Archeologico di Napoli, partirà per un viaggio attraverso il tempo e le storie di una città antica e moderna, piena di contraddizioni e di incanto.

“Father and Son”, videogioco realizzato in inglese e italiano, sarà rilasciato gratuitamente e senza contenuti pubblicitari a marzo 2017 su Apple Store e Google Play.

Una delle illustrazioni di Napoli realizzate per Father and Son
Una delle illustrazioni di Napoli realizzate per Father and Son

È già on line il sito ufficiale www.fatherandsongame.com,  dove il visitatore potrà visualizzare un’anteprima dei contenuti del videogioco nonché inviare una lettera ad una persona a lui cara. Un’idea di interazione che si ricollega all’incipit ed alla copertina attuale del gioco: la lettera che il padre scrive al figlio, chiedendogli scusa per le sue assenze e invitandolo a ricercare le sue ragioni.

Sono state attivate anche la pagina FB (https://www.facebook.com/fatherandsongame ) ed il profilo Twitter (https://www.twitter.com/FatherandSonVG ) del gioco.

L’ideazione di un videogame che abbia come contenuto il Museo Archeologico Nazionale si deve al Prof. Ludovico Solima – ha spiegato Paolo Giulierini, direttore del MANN –mentre la sua realizzazione a Fabio Viola. Ci permette di raggiungere uno degli obiettivi fondanti del Piano Strategico: la connessione con il pubblico, sia quello che visita il museo sia quello virtuale. In tutto il mondo si potrà interagire con i contenuti storici del nostro Istituto e della città di Napoli attraverso questo peculiare strumento, che ormai va annoverato tra le nuove forme d’arte, non si può che essere soddisfatti della nostra disseminazione culturale”. Ha contribuito ai contenuti del videogioco anche il prof. Ludovico Solima (Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”), che ha inoltre partecipato alla redazione del “Piano Strategico 2016-2019” del Museo: obiettivo per il triennio è quello di arrivare a nuovi pubblici attraverso la tecnologia e la rete, in una prospettiva di audience engagement, cioè di coinvolgimento attivo del visitatore.

Anche il mondo dell’Arte, quindi, sembra pronto ad una nuova sfida: comunicare in modo più moderno, più al passo con i tempi. Una nuova strategia di storytelling che, si spera, riuscirà ad attrarre l’attenzione di giovani e giovanissimi molto più dei rimbrotti dei loro insegnanti.

Si dice ministro o ministra? Linguaggio, sessismo e nazismo grammaticale

Si dice ministro o ministra? Linguaggio, sessismo e nazismo grammaticale

Ministro o ministra? Sindaco o sindaca?

Negli ultimi mesi si sta consumando una battaglia senza esclusione di colpi tra chi sostiene la necessità di declinare le professioni secondo il genere sessuale e chi attribuisce a tale pratica il valore di una barbarie linguistica.

Da una parte del ring abbiamo Laura Boldrini, giornalista ed attuale presidente della Camera: la sua attenzione al linguaggio di genere – apparentemente inaudita – ne ha fatto una facile vittima di molti benaltristi, che ci ricordano essere ben altri, per l’appunto, i problemi dell’Italia. Una posizione non comoda, rimarcata dichiarando, nel 2013 «Chiedo da mesi, non per puntiglio, di essere chiamata “la presidente”. E invece quando si rivolgono a me mi chiamano “signor presidente”. Ora basta. Non è un puntiglio o un vuoto formalismo, bensì l’affermazione che esiste più di un genere». Dall’altra parte, ritroviamo illustri politici, ex presidenti della Repubblica e – a quanto pare, il vero fiore all’occhiello dello schieramento – Vittorio Sgarbi, illustre critico d’arte e attaccabrighe patentato. Di solito chi siede da questa parte del tavolo lamenta “l’abominio” perpetrato ai danni della lingua italiana, e la palese scorrettezza delle regole che si chiede di applicare.

A questa querelle le piazze social hanno dato notevole spazio: la posizione dominante sembrerebbe essere quella dei paladini della grammatica del secondo gruppo.  Il che è strano, visto il livello dei post che leggiamo ogni giorno su facebook, ma bene così.

Detto questo: è la Boldrini la prima ad aver posto questo problema?

Assolutamente no. Già nel 1987 Alma Sabatini stilò le “Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana”, nell’ambito della pubblicazione Il Sessismo nella lingua Italiana: il testo, promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dalla Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, si pone come obiettivo quello di “dare visibilità linguistica alle donne e pari valore linguistico a termini riferiti al sesso femminile”.

Il testo propone, espressamente, l’uso dei termini “ministra”, “assessora”, “avvocata” e recita, allora come se fosse stato scritto oggi “La lingua è una struttura dinamica che cambia in continuazione. Ciò nonostante, la maggior parte della gente è conservatrice e mostra diffidenza – se non paura- nei confronti dei cambiamenti linguistici, che la offendono perché disturbano le sue abitudini o sembrano una violenza contro natura”.

Persegue questa linea la linguista Cecilia Robustelli, che in collaborazione con l’Accademia della Crusca, ha pubblicato nel 2012 le Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo, adottate dal Comune di Firenze nell’ambito del Progetto Genere&Linguaggio. Qui si dice “In italiano il genere grammaticale dei nomi è comunemente congruo con il genere biologico del referente: i termini che si riferiscono a un essere femminile sono di genere grammaticale femminile e quelli che si riferiscono a un essere maschile sono di genere grammaticale maschile.

Non c’è nessuna ragione di tipo linguistico per riservare ai nomi di professione e di ruoli istituzionali un trattamento diverso.

Gli unici vincoli nel declinare le parole secondo il genere sono quindi quelli della grammatica, e a chi dice che “sindaca” è sbagliato, e che allora anche il pediatra deve diventare pediatro, possiamo rispondere che:

◦      Le parole terminanti in -o, -aio/-ario mutano in -a, -aia/-aria: architetta, avvocata, chirurga, commissaria, ministra, prefetta, primaria, sindaca

◦      Le parole terminanti in -sore mutano in -sora: assessora, difensora, evasora, revisora

◦      Le parole terminanti in -iere mutano in -iera: consigliera, portiera, infermiera

◦      Le parole terminanti in -tore mutano in -trice: ambasciatrice, amministratrice, direttrice, ispettrice, redattrice, senatrice

◦      Le parole terminanti in -e/-a non mutano, ma chiedono l’anteposizione dell’articolo femminile: la custode, la giudice, la parlamentare, la presidente: stessa regola per i composti con il prefisso capo-: la capofamiglia, la caposervizio

◦      Le forme in -essa e altre forme di uso comune vengono conservate: dottoressa, professoressa.

Come suggerito ancora una volta da Cecilia Robustelli per la formazione dei termini relativi a professioni e cariche istituzionali (in Dizionario del 2012, di G. Adamo e V. Della Valle, in Treccani. Il libro dell’anno 2012, pp. 266-69, p. 269).

Ma allora perché tante resistenze?

Perché, ci piaccia o meno, siamo noi stessi a scegliere dell’evoluzione di una lingua. La stessa Accademia della Crusca non disciplina le regole grammaticali, ma si limita a descriverne l’evoluzione. Se parole nate per descrivere fenomeni relativamente nuovi (“scannerizzare”, “taggare”, “cliccare”) sono ormai entrate nell’uso comune, parole vecchie usate per descrivere fenomeni nuovi (l’aumento di donne al potere) non riescono a prendere altrettanto piede. Il principio – correttissimo – che il ruolo debba prescindere dal sesso non trova nella lingua italiana uno specchio adeguato: non possediamo infatti un genere neutro, e adoperare il maschile per ambo i sessi non è di fatto corretto.

Se parole, come abbiamo visto, grammaticalmente corrette sono così osteggiate – mentre, per dire, a furia di citare indignati l’episodio di “petaloso”, rischieremo davvero di trovarcelo nel dizionario – probabilmente ci sono dei passaggi culturali che dobbiamo ancora accettare. Per esempio, dovremmo ammettere che discussioni come questa evidenzino come sulla “questione femminile” ci sia ancora da fare molto, e non per una questione linguistica: se gli unici commenti che leggiamo sono contro le “femministe del cxxxx che vogliono cambiare la grammatica” o “che cavolo vogliono queste isteriche” forse sì, c’è ancora molto da fare.

Perché tanti personaggi famosi morti nel 2016? Le risposte della psicologia

Perché tanti personaggi famosi morti nel 2016? Le risposte della psicologia

Il 2016 non passerà alla storia come uno degli anni più fortunati di sempre: dal 10 gennaio, giorno della morte di quell’icona musicale che è David Bowie, sembra che la signora con la falce si sia data particolarmente da fare, ponendo fine all’esistenza terrena di icone del pop, capi di stato e attori con una ferocia inaudita.

Qualche nome sugli altri: Bud Spencer, Ettore Scola, Gianni Rondolino, Umberto Eco, Marta Marzotto, Anna Marchesini, Zaha Hadid,  Gianroberto Casaleggio, Gene Wilder, Ermanno Rea, Carlo Azeglio Ciampi, Dario Fo, Prince, Tina Anselmi, Fidel Castro, Leonard Cohen, George Michael and least but not last (anzi, speriamo last) Carrie Fisher. Molti di questi personaggi hanno rappresentato un punto di riferimento importante per parecchi di noi; alcuni di essi sono stati veri e propri “simboli” e privarsene rende il nostro mondo un po’ più duro.

Come dice Michele Seta, indimenticato coprotagonista de L’Amico del Cuore “Tutti quanti amma murì”: la sensazione è che però nell’anno che si sta concludendo le quote – morte abbiano superato ogni limite.

Ma è davvero così?

I morti del 2016 sono davvero così tanti?

Se il peso delle perdite dell’anno appena trascorso è indubbiamente significativo, forse dovremmo rivedere la percezione “numerica” di quello che è avvenuto negli ultimi 12 mesi. In altre parole: tendiamo a sovrastimare il numero delle morti perché:

  • I media prestano maggiore attenzione a queste notizie
  • Sono scomparsi molti personaggi “iconici”
  • Ne parliamo di più

La compresenza di questi tre fattori ci lascia cadere in quelli che in psicologia si chiamano “bias cognitivi”, ossia strategie di pensiero che non poggiano sui fatti ma su nostre convinzioni ed autoinganni.

La verità è che l’essere umano è dannatamente pigro e, laddove può, mette il pilota automatico per pensare il meno possibile: in un mondo come il nostro, dove un gran numero di cose si ripresenta in maniera spesso identica, affidarsi ad euristiche di pensiero non soltanto è possibile, ma è alla base di molti processi di apprendimento.

Oggi, domani e fino alla fine dei tempi, 2 per 2 farà 4, e alla notte seguirà il giorno:

possiamo quindi ragionevolmente utilizzare questi concetti per fare di calcolo agevolmente e programmare, che so, una gita al mare, senza paura di essere smentiti. Quando mancano regole incontrovertibili, o leggi di natura, qualunque euristica sarà un azzardo: quando si parla di notizie di interesse generale, poi, il numero illimitato di voci che giungeranno alle nostre orecchie toglieranno ogni attendibilità ai nostri ragionamenti. In altre parole: creiamo degli schemi laddove non ci sono. Vediamo qui qualche esempio di bias cognitivi che ci accompagnano quando commentiamo l’ennesima morte celebre.

L’euristica della disponibilità: più una cosa è avvenuta, più avverrà

“Vai, e insegna agli angeli a cantare/ a cucinare/a tirare di scherma”. Quanti di noi hanno trovato sulla propria bacheca di facebook decine, se non centinaia di post del genere? I nuovi mezzi di comunicazione offrono un riverbero straordinario a decine di fatti e opinioni che solo 20 anni fa avremmo ignorato. La rapidità con cui i giornali on line aggiornano le proprie pagine ha portato ad un aumento enorme delle notizie che giorno dopo giorno vengono diffuse: tra queste, quelle dei lutti – soprattutto se di figure iconiche per più persone – hanno un’inevitabile eco. Uno dei bias cognitivi più frequenti è l’euristica della disponibilità, ossia la tendenza ad assegnare maggiori probabilità ad eventi molto improbabili, ma che richiamano maggiormente la nostra attenzione. Molti di noi – me compresa – si sono lanciati in improbabili toto-morto per l’anno 2016, chiedendosi chi sarebbe stato il prossimo a lasciarci. Con quali basi? Nessuna, ma ormai i vip sembravano sparire come mosche…

L’effetto alone: i personaggi famosi sono mortali, anche se non si direbbe

Alla celebrità attribuiamo, fin dalla notte dei tempi, poteri miracolosi.

Gli antichi greci innalzavano al rango di semidei i loro eroi: il terzo millennio ci ha reso più dissacranti ma non per questo meno superstiziosi. Il personaggio famoso non vive come noi, non mangia come noi, e quando muore c’è sempre qualcosa dietro. Il fatto che qualcuno abbia fatto qualcosa di straordinario, o almeno attenzionabile nella propria esistenza, gli dà uno status di “superumano”: è questo che chiamiamo effetto alone. La scomparsa di icone dei nostri tempi come Bowie e Prince ha messo in discussione un nostro assunto implicito, che sentiamo la necessità di riconfermare: per questo le morti celebri ci colpiscono tanto, spesso anche più del valore specifico che il defunto ha avuto nella nostra esistenza.

L’Effetto Rosenthal: chi cerca trova. Anche il morto

Allora, abbiamo appreso che muoiono anche le persone famose. Ne sono morte parecchie, peraltro. Cosa troveremo sui giornali? Altre notizie di morti. Questo avviene per due ragioni:

La prima è che noi siamo naturalmente attratti da quello che conferma il nostro pensiero.

Robert Rosenthal, il primo a studiare l’omonimo effetto (detto anche “effetto pigmalione” o della “profezia che si autoavvera”), mostrò come, dando a uno sperimentatore i topolini selezionati casualmente e informandolo che sono dotati di scarsa capacità, questi risultino tali ai test sperimentali. Le stesse cavie, presentate successivamente allo sperimentatore come molto intelligenti, producono risultati eccellenti. Quindi, se noi pensiamo che nel 2016 sta morendo chiunque, troveremo sui giornali ogni minuscolo trafiletto sulle morti celebri.

La seconda è che i media ci “accontentano”

Vi è mai capitato di cercare su un computer pubblico dell’intimo carino, rinnovare l’accesso e trovare pubblicità di lingerie a piè sospinto? Ecco, sappiamo tutti che il web non dimentica: paghiamo i servizi che i motori di ricerca ci danno gratuitamente cedendo un’impressionante mole di informazioni personali. Dal punto di vista commerciale, questo permette di ricostruire un profilo quasi perfetto delle nostre abitudini ed inclinazioni: ad ogni click, salirà quindi la probabilità che appaiano pubblicità a tema con le nostre preferenze, e che quindi si compri qualcosa. Questo avviene anche con le notizie che cerchiamo, chiaramente. Infine, molto più semplicemente, i giornali ripropongono con maggiore frequenza le notizie più pregnanti per i propri lettori: le morti celebri fanno parte di queste.

In breve:

Quando siamo chiamati a stimare la frequenza di un evento, spesso siamo distratti da una serie di elementi che non hanno nulla a che fare con i fatti: l’esempio dei morti del 2016 ci dimostra come bastino pochi meccanismi cognitivi ad offuscare la nostra oggettività. Quando parliamo di informazioni tutto sommato poco rilevanti per il nostro benessere, una stima più o meno precisa non ci creerà particolari problemi: se, tuttavia, applichiamo le stesse euristiche per prendere decisioni significative, le conseguenze possono essere ben più gravi. Prestiamo quindi attenzione ai nostri ragionamenti interiori: è vero, non sempre abbiamo tutte le informazioni che ci servirebbero per assumere una decisione davvero ponderata, ma è importante verificare che quanto già sappiamo sia reale, o quanto meno il più vicino possibile al vero.

 

Cos’è la depressione: un libro spassoso (e tristissimo) ce lo spiega. Guida a “Un’Iperbole e mezza” di Allie Brosh

Cos’è la depressione: un libro spassoso (e tristissimo) ce lo spiega. Guida a “Un’Iperbole e mezza” di Allie Brosh

La depressione è uno di quei concetti che hanno sviluppato un successo maggiore fuori dagli ambulatori di psichiatria che dentro: spesso autodiagnosticata a sproposito, assai di frequente tenuta a bada  con “passeggiate che tolgono ogni pensiero” o, peggio, con farmaci prescritti a mio cugino che c’ha gli attacchi di panico, per molti la depressione è una sorta di tristezza di lusso, un magone più nobile ed altezzoso delle scatole girate che di tanto in tanto affliggono ognuno di noi.

Quello che a nessuno piace sapere è che la depressione fa stare davvero male. Il DSM – 5 (il manuale che elenca i criteri diagnostici delle principali patologie psichiatriche con standard internazionali, giunto alla quinta edizione nel 2013) ci autorizza a parlare di depressione soltanto se si presentano, con continuità, almeno cinque di questi sintomi, per un periodo di almeno due settimane:

  1. umore depresso per la maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni
  2. marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni (detta anche anedonia)
  3. significativa perdita di peso, non dovuta a dieta, o aumento di peso, oppure diminuzione o aumento dell’appetito quasi tutti i giorni.
  4. insonnia o ipersonnia quasi tutti i giorni
  5. agitazione o rallentamento psicomotori
  6. faticabilità o mancanza di energia
  7. sentimenti di autosvalutazione o di colpa eccessivi o inappropriati (che possono essere deliranti), quasi tutti i giorni
  8. ridotta capacità di pensare o concentrarsi, o indecisione, quasi tutti i giorni
  9. pensieri ricorrenti di morte (non solo paura di morire), ricorrente ideazione suicidaria senza un piano specifico, o un tentativo di suicidio, o un piano specifico per commettere suicidio.

Per approfondimenti, ti invito a leggere qui: come ti invito a non prendere alla leggera la definizione di depressione, intendo fare altrettanto con i criteri diagnostici della stessa.

La depressione non si autodiagnostica, punto.

Se invece, quello che vuoi è capire un po’ meglio cos’è la depressione, magari perché sospetti che la tua tristezza o quella di una persona a te cara possa essere diventata un po’ troppo invasiva, ti suggerisco il divertentissimo “Un’iperbole e mezza: Il mio cane è scemo, il mondo è crudele e io sono sconnessa più che mai”, scritto – ma soprattutto illustrato – da Allie Brosh, edito in Italia da Salani.

Il libro – come ormai avviene sempre più spesso – è una raccolta dei post di maggior successo del blog Hyperbole and a Half, aperto nel 2009 dalla statunitense Allie Brosh: storie di cani, di infanzia e di depressione. In particolare la depressione della giovane Allie, classe 1985, che racconta con grande lucidità e crudele realismo la propria caduta negli abissi, la sofferenza vissuta, e la sua rinascita mai definitiva, ma che le permette di esclamare

“Forse là fuori non tutto è una merda!”.

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Io lo dico…si piange. 

Nel libro ci sono momenti molto dolorosi, come il maturarsi nella testa di Allie di ideazioni suicidarie: al dramma di queste righe si contrappongono gli esilaranti tentativi della giovane di lanciare il proprio grido d’allarme, con una serie di elucubrazioni che vengono volta per volta riconosciute come non valide.

Una narrazione che altrimenti avrebbe rischiato di essere monotematica si arricchisce con i divertenti tentativi di Allie e del suo compagno di addestrare i propri cani: un dolce bastardino palesemente ritardato ed un cane sociopatico, con i quali le ambizioni di dog whisperer dei due giovani sembrano naufragare senza speranza. Le pagine dedicate agli animali sono palesemente brillanti, e particolarmente buffe per chi ha già animali.

La tecnica grafica utilizzata che Allie utilizza per rappresentare se stessa ed il mondo che la circonda è il semplice Paint: una raffigurazione efficace, che ha ispirato diversi meme, popolari anche in Italia.

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Ora la riconosci, vero? 

Un’Iperbole e mezza è un piccolo gioiello, un libro che fa ridere e piangere di gusto. Per chi sta vivendo quello che ha vissuto la giovane scrittrice significa trovare uno specchio, sentirsi meno sola: per chi ha accanto una persona con depressione aiuta a non sottovalutare certi segnali.

Il Fertility Day e la dissonanza cognitiva: un manuale per trasformare un’idea carina in una catastrofe comunicativa

Il Fertility Day e la dissonanza cognitiva: un manuale per trasformare un’idea carina in una catastrofe comunicativa

Lo giuro, sono confusa.

A fine agosto  il Ministero della Salute ha lanciato il cosiddetto Fertility Day, “punto centrale” recita il sito istituzionale “ delle iniziative previste dal Piano Nazionale della Fertilità per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema della prevenzione dell’infertilità e quindi della salute sessuale e riproduttiva di donne e uomini”. Idea encomiabile, se non fosse stata per l’atroce campagna di comunicazione che ne è scaturita. Donne che si accarezzano la bocca dello stomaco, rubinetti che perdono, bucce di banana e amanti giocolieri: il tutto condito da frasi rassicuranti come “OCCHIO CHE TE STAI A Fa VECCHIA!!!” “GUARDA CHE TE SE AMMOSCIA LA BANANA” “CHE BELLO FIGLIARE A 16 ANNI E RITORNARE IN DISCOTECA INSIEME ALLA TUA PROLE A QUARANTA!”.

Si è detto di tutto di questa campagna, giustamente bersagliata dal popolo di internet. Perché quindi parlarne ancora? Perché, come detto in apertura, sono confusa. Ma non (solo) per colpa mia.

L’oggetto della comunicazione in oggetto era uno, ed uno solo: “La salute riproduttiva della popolazione italiana”. Giusto? Sbagliato? A mio avviso, giusto. Innovativo? In un certo senso sì: se ci arrivo da sola che ubriacarmi tutte le sere non faccia benissimo alle mie ovaie, non è detto che sappia che attenzioni utilizzare con il mio corpo qualora decidessi di farmi ingravidare. Il fatto che si possa fare del sano sesso ricreativo senza desiderare di avere figli non nega una verità biologica fondamentale: ossia che, utero, ovaie e testicoli abbiano esattamente una potenzialità riproduttiva. Una potenzialità che può o meno essere espressa, ma che esiste, e che ci si augura funzioni al meglio quando e se ce ne sarà la necessità.

Cosa farei io se volessi fare una campagna di comunicazione sulla salute riproduttiva?

Direi alle ragazzine di farsi il pap test appena cominciano i rapporti sessuali. Inviterei all’uso del preservativo per evitare malattie sessualmente trasmissibili che – quelle sì – minacciano davvero la fertilità. Ricorderei che una gravidanza va programmata con un minimo di criterio, magari chiedendo qualche consiglio al medico. Ovviamente dando per scontato che sia solo una parte della popolazione a volere figli, o a poterne avere.

E invece?

Partire da una premessa ingiusta e continuare a sbagliare è nell’ordine delle cose.

Avere ottime motivazioni, un contenuto condivisibile, centinaia di migliaia di euro da investire e toppare tutto, tutto, ma proprio tutto è da guinness dei primati. Ed è esattamente il caso di cui ci stiamo occupando.

La campagna promossa dal Ministero della salute è un orrore dal punto di vista dello stile comunicativo, che si fa moraleggiante anziché informativo; è vagamente offensiva verso chi non può e non avere i figli quando parla del “Prestigio della Maternità” (e in effetti lo è anche verso i padri, ma non ho sentito troppe lamentele a riguardo); è un pasticcio per quanto concerne i contenuti, perché parte da una premessa (la prevenzione dell’infertilità) e ne sviluppa un’altra (la denatalità): infine, richiama il fascismo quel tanto che basta per farsi volere bene proprio da tutti.

Se dicessi ad una mia amica che non vuole avere figli “ma che dici! PREPARA UNA CULLA PER IL FUTURO! LA MATERNITÀ È UN BENE COMUNE!” mi picchierebbe.

Se ai tempi della scuola avessi fatto un tema sull’infertilità utilizzando come unica argomentazione “Scopate senza preservativo!” avrei preso un non classificato.

Purtroppo, qui non parliamo né di amici né di liceali, ma di professionisti, Cerchiamo quindi di capire dove hanno sbagliato: dal punto di vista psicologico, sociologico e comunicativo.

La dissonanza cognitiva: avresti anche ragione, ma…

La comunicazione, come ormai sa anche la nostra lavandaia, non si limita ad una semplice trasmissione di messaggi tra soggetto A e soggetto B: è una danza complicata di segnali verbali o non verbali, di interpretazioni, di contesti sociali specifici. Insomma, non siamo da soli in questa giungla di parole.

Paul Watzlawick ne La Pragmatica della Comunicazione Umana distingue nettamente il “contenuto” di una comunicazione dagli assunti relazionali in essa contenuti. Per farla breve: se ti chiedo con aggressività di portarmi il caffè lascio intendere che tra di noi ci sia una certa gerarchia, che ad una richiesta tutto sommato innocente faccia seguito un “sennò ti faccio vedere io”. Le relazioni spesso sono quelle che costruiamo noi, ma ancor di più sono in qualche modo “culturalmente determinate”.

Con il nostro capo possiamo essere più o meno formali, ma ci saranno dei paletti; con un fidanzato la confidenza fisica si trasforma anche in una certa libertà di linguaggio, and so on. Ovviamente, ci aspetteremo reazioni uguali e contrarie.

Ora, ci piace pensare che il Ministero della salute sia una garanzia per quanto riguarda il nostro benessere. Non ci aspettiamo una comunicazione sbarazzina. Non ci aspettiamo che ci faccia la morale. Ci aspettiamo che ci porti dei dati, e che da lì emergano delle inferenze corrette. Ci aspettiamo di essere informati, e giacché si tratta di un interlocutore autorevole, anche delle soluzioni ad una serie di problemi.

La campagna del Ministero non fa nulla di tutto questo: tenta la strada della simpatia, ma lo fa su un terreno che definire minato è dir poco, e per di più omettendo quelli che è il più grande ostacolo odierno alla genitorialità: un welfare praticamente assente.

Tantissime donne sono costrette a procrastinare la maternità per via dell’incertezza lavorativa?

“Corri, che tra un po’ il tuo tempo finirà!”

Ora, tutti noi sappiamo che prima si fanno i figli e meglio è (per quanto il mito dell’orologio biologico sia attualmente messo in discussione): ricordarlo con soldi pubblici, oltre ad essere uno spreco di risorse, è assolutamente inutile, perché ribadisce il già noto (anche a chi ad un figlio ha dovuto rinunciare).

Le mamme, le nonne non fanno che dircelo: perché il Ministero della Salute dovrebbe fare lo stesso?

Quindi abbiamo: un’affermazione formalmente corretta, anche se espressa in modo sgradevole; un ente esterno dal quale ci aspettiamo un certo tipo di comunicazioni, mentre ne arrivano altre; da una parte, la consapevolezza che un discorso sulla salute riproduttiva sarebbe opportuno, dall’altra la constatazione che è il nostro contesto storico ad impedirci un certo tipo di prospettive.

Questo ci fa sentire feriti, ma anche perplessi; nessuno ci sta dicendo cose false, eppure non hanno ragione loro. Questa sensazione di sfasamento si chiama in psicologia “dissonanza cognitiva”: una serie di affermazioni palesemente conflittuali tra loro e con il nostro sistema culturale vengono poste al centro del dibattito pubblico con una potenza di mezzi che neppure immaginiamo. Colpo da maestro, rievocare con motti come “Riscopriamo il prestigio della maternità!” un ventennio del quale nessuno ricorda cose bellissime. Insomma, se non puoi vincerli, confondili. Direi che ci sono riusciti.

La comunicazione paradossale: è difficile mantenere un figlio, quindi fai un figlio.

Ma quindi stai facendo anche tu il processo a quattro cartoline!”.

Lo ammetto, la tentazione ci sarebbe ma sono la prima ad ammettere che le premesse del Piano Nazionale della Fertilità sono ragionevoli, di buon senso. Sembrano le parole di tua zia, di un tuo professore “Per favorire la natalità, se da un lato è imprescindibile lo sviluppo di politiche intersettoriali e  interistituzionali a sostegno della Genitorialità, dall’altro sono indispensabili politiche sanitarie ed educative per la tutela della fertilità che siano in grado di migliorare le conoscenze dei cittadini al fine di promuoverne la consapevolezza e favorire il cambiamento”.

Occhei, va bene.  Sappiamo tutti che in Italia non nascono bambini, non ho bisogno di dati. Ma perché dovrebbe essere un mio problema? “La combinazione tra la persistente denatalità ed il progressivo aumento della longevità conducono a stimare che, nel 2050, la popolazione inattiva sarà in misura pari all’84% di quella attiva. Questo fenomeno inciderà sulla disponibilità di risorse in grado di sostenere l’attuale sistema di welfare, per effetto della crescita della popolazione anziana inattiva e della diminuzione della popolazione in età attiva”.

Ok, chiaro: ne va della mia pensione. E quindi? “Il peso della cura dei bambini è molto rilevante per le donne più istruite e con lavori di responsabilità che si confrontano con alti costi opportunità e si trovano a dover ridurre la loro attività lavorativa. Il ritardo alla nascita del primo figlio implica un minor spazio di tempo, ancora disponibile, per raggiungere il numero desiderato di figli”.

Ora, non so a voi, ma a me già sta venendo il mal di testa.

Al di là della confutabilità dell’assioma titolo di studio elevato = lavoro di prestigio – rispetto a questo siamo disincantati da parecchio – nonché del fatto che, traducendo letteralmente questo concetto, sembrerebbe che i lavori per i quali è richiesta la terza media rappresentino un viatico certo per la maternità (ma sti c…di padri dove sono, peraltro?), ci ritroviamo di fronte ad un dato di fatto:

è estremamente complicato gestire figli e lavoro contemporaneamente.

Qual è la soluzione? Fare figli!

In realtà, il Piano della Fertilità diffuso dal Ministero prevede una serie di interventi, alcuni puntuali, altri più discutibili, per informare uomini e donne sui propri organi riproduttivi. Certo, ti aspetteresti un piano di Welfare con asili nido e garanzie lavorative per le mamme, ma è pur sempre “solo” il Ministero della Salute.

A livello comunicativo tuttavia emerge solo l’aspetto paradossale della vicenda: una forte incongruenza tra il discorso esplicito ed il livello meta comunicativo che non solo suggerisce di far figli ma anche, come abbiamo già visto, lo fa in modo moraleggiante!

Se il Ministero fosse nostra madre, potremmo parlare di “doppio legame”: da una parte una figura a noi cara ci strizza l’occhio, ci fa capire che ci capisce, ci è vicina, MA nei modi e nelle riflessioni ad alta voce ci lascia intendere che siamo comunque dalla parte del torto. No buono.

Mittente, destinatario, messaggio: che casino!

Abbiamo visto che dal punto di vista psicologico – senza scomodare troppo i vissuti emotivi legati a certi temi – la campagna per il Fertility Day presenta qualche intoppo. Ma come comunicazione tutto bene, no?

E invece no. A parte che una buona comunicazione senza un po’ di attenzione alla psicologia non andrà mai lontano, ma appare assai evidente che alla base di una pessima campagna c’è quasi sempre un brief fatto con i piedi. Insomma, manco i compiti a casa fatti bene.

Vediamo quindi di contestualizzare il lavoro svolto.

  • Mittente: Ministero della Salute
  • Oggetto: “La salute riproduttiva della popolazione italiana”
  • Destinatari: Verosimilmente, chi vuole avere figli. Attenzione, questo passaggio è delicato ed è estremamente influenzato dal contesto sociale e culturale in cui siamo immersi. Seguitemi, e vedete se vi fila.
  • Contesto: Italia, anno 2016. Siamo un paese a natalità 0 ed assolutamente privo di garanzie per la maternità. Si fanno sempre meno figli e di solito in età avanzata. Abbiamo già riflettuto sulle implicazioni di questi processi,quindi sappiamo che si parla di un campo minato.
  • Messaggio: Fate figli per l’Italia!

A questo punto io alzerei la manina e chiederei: “ma quindi il problema è che la gente non riesce fisicamente a fare figli? Quindi avremo dati sulla sterilità nel piano del Ministero, giusto?”. Sbagliato!

“Avrete dialogato con delle coppie che stanno cercando di avere figli senza riuscirci…”.

Non pervenuto.

“Ma avrete dati…”.

“Certo, guarda qua! 1,3 figli per coppia in Italia!”.

Dati sulla natalità. Che possono essere ricollegati a problemi di sterilità, ma non possiamo sapere in quali termini. Non si fanno figli perché non ci si riesce? Perché non ci sono soldi? Perché non se ne vogliono? Non è dato saperlo. Quindi, che si fa?

Siccome volere è potere, si prova a convincere chi non ha ancora figli a provarci. Quindi, si cambiano a 180° i destinatari della campagna. Non parleremo con chi magari quelle informazioni le cerca, no! Ricorderemo a chi non può, o non ha intenzione di fare figli che la maternità è un bene comune!

Massì, ho 35 anni e nessuna intenzione di avere figli! Dimmelo, che sono manchevole verso il mio paese!

Hai proprio ragione, Bea! I miei spermatozoi sono flosci proprio come quella buccia di banana!

Quante coppie sarebbero state felici di essere coinvolte in una campagna informativa sulla fertilità? Tante.

Quante per una sulla natalità? Nessuna, se me la imposti così.

Insomma, se la mamma dei cretini è sempre incinta, magari è meglio non spingerla a continuare.

 

Il blocco dello scrittore: perché non riesco a finire quello che scrivo?

Il blocco dello scrittore: perché non riesco a finire quello che scrivo?

Quando avevo otto anni decisi che avrei scritto la mia autobiografia. Sì, in effetti ero una bambina pretenziosetta. Comprai un bel quaderno, scrissi sulla copertina “Le mie memorie” (com’ero io da piccola? Infatti) e lo tenni lì: andò molto più lontano lo sfottò delle mie sorelle che la mia mia volontà di raccontare quella volta che Giandomenico mi ruppe gli occhiali con una pallonata o di quell’indigestione di insalata di riso che feci nel 1989. Ebbi, per dirla in breve, un precocissimo blocco dello scrittore.

Cosa andò storto?

Probabilmente, il fatto che la mia esistenza da ottenne non si caratterizzasse per eventi straordinari fece la sua parte: ero pretenziosetta, ma sapevo fare un discreto esame di realtà, e mi rendevo conto che storie di denti caduti e ginocchia sbucciate potevano non avere un grande seguito.

Volendo fare l’esercizio di cercare sempre un insegnamento dalle cose, posso dire che quel blocco dello scrittore datato  1991 non è poi molto diverso da quello che mi ha impedito, circa 15 anni dopo, di aggiungere un paio di capitoli alla mia tesi di laurea per garantirne la pubblicazione; dal meccanismo perverso che mi fa trascinare per settimane quei lavori per i quali non ho una scadenza precisa, e che mi permettono di aggiornarmi, verificare, rileggere all’infinito; o anche l’indolenza che, anche adesso, mi fa prendere in mano il cellulare ogni cinque minuti per vedere se sono arrivati messaggi.

Perché avviene il blocco dello scrittore? Mancanza di concentrazione, certo. Pigrizia pure, ci sta. Tuttavia, io definirei questo fenomeno di auto sabotaggio “Sindrome da documento di word lasciato a metà”, un fenomeno complementare e parallelo alla cosiddetta “Sindrome da foglio bianco”.

Per intenderci, la Sindrome da foglio bianco ti colpisce di fronte ad una pagina completamente vuota, quando sei sommerso dalle idee o non ne hai nessuna; in entrambi i casi scrivere, scrivere di qualunque cosa , può aiutare. La sindrome da documento word è un’evoluzione della prima: stai facendo il tuo lavoro, magari hai faticosamente raggranellato qualche idea su carta, ma ad un certo punto ti ritroverai a dire:  “Oh mio dio, ma quello che sto scrivendo fa veramente schifo!”.

Immagina la scena: sei tu e la tua birra ghiacciata di fronte al tuo Mac, seduto alla tua Postazione Da Scrittore. Nella tua mente si avvicendano scenari fantastici, unicorni glitterati e draghi sputa caramelle. Cominci a scrivere, ti tremano le mani, tutto è meraviglioso: poi rileggi il tutto, e l’euforia passa. Cerchi di proseguire ma nulla, gli unicorni se ne sono andati e perché mai, cribbio, i draghi dovrebbero sputare caramelle. Il nostro lavoro resta dunque lì, senza una degna conclusione: a volte lo riprendiamo, a volte lo dimentichiamo, salvo poi ritrovarcelo davanti e sentire l’amaro in bocca dell’incompiuto.

Il blocco dello scrittore è un mostro con più facce : “mettersi e scrivere” , come spesso si suggerisce, è un ottimo rimedio di emergenza se sei costretto a scrivere qualcosa, ma non sai da dove cominciare.

La necessità di portare a termine qualcosa è già un’ottima motivazione: certo, potresti non scrivere con gioia, ma in fondo quale professionista della scrittura parla di qualsiasi argomento con immutata felicità?

Il problema nasce quando ci blocchiamo di fronte a qualcosa che stiamo scrivendo per noi: come quando il romanzo nella tua testa si interrompe, e non sai cosa fare.

Di seguito, ti darò qualche consiglio per superare il blocco dello scrittore: bonus track, ti svelerò qualche segreto per scrivere divertendoti di quasi qualunque argomento.

Pronti? Andiamo.

Partiamo dalla motivazione, ossia “Chi me lo fa fare?”.

Motivazione estrinseca ed intrinseca: cerca uno scopo più alto, sempre

Uno dei concetti psicologici che maggior successo ha trovato in contesti quotidiani è la differenza tra motivazione intrinseca ed estrinseca. Dobbiamo questo concetto a  Deci e Ryan (1985), che nella loro Teoria dell’autodeterminazione collegano la naturale ricerca dell’uomo di occasioni di crescita e di miglioramento tanto alla presenza di incentivi esterni (“estrinseci”), quanto ad una forte volontà interiore (“intrinseca”, appunto”). La motivazione estrinseca funziona bene, anzi benissimo, nel breve periodo: se io faccio qualcosa per compiacere qualcun altro, o perché, banalmente, sono pagato per farlo, la nostra curva di perfomanza al compito schizzerà in alto nell’immediata vicinanza del compito che mi aspetta, per poi precipitare verso il basso non appena sarà terminata l’urgenza. Immediatamente prima ed immediatamente dopo questo grande sprint attiveremo meccanismi cognitivi meccanici, che ci permetteranno di interagire con l’ambiente quel tanto che basta per non perdere di vista informazioni importanti sul compito che ci aspetta, ma non staremo certo lì a reiterare, a studiare, ad affaticarci.

Vi faccio un esempio pratico: siamo agli ultimi esami all’università, non ce la facciamo più. Probabilmente negli ultimi 4, 5 giorni che precedono l’esame non sentiremo più fame, sete, sonno: ogni parte del nostro essere sarà proiettato a quella prova. Poi facciamo l’esame, e mettiamo subito i libri il più lontano possibile dalla nostra vista.

Cosa succede, invece, se studiamo per il nostro esame preferito? Leggeremo giorno e notte anche mesi prima della prova, ci interrogheremo su ogni passo, faremo ricerche su internet: certo, superare l’esame sarà bellissimo, ma sarà altrettanto gratificante sapere tutto di quell’argomento.

“Diana, ma cosa c’entra con il blocco dello scrittore? Se è vero quello che mi dici, allora dovremmo avere enormi difficoltà a svolgere compiti che non ci piacciono e dovremmo andare come un treno in quelli che ci piacciono!”.

Vero, anzi, no. La motivazione va rinforzata, va nutrita, va coltivata: quante persone cullano grandi sogni che poi abbandonano? Certo, stai facendo qualcosa che ti piace, ma la giornata storta ti capiterà prima o poi. Così come il foglio word lasciato a metà.

D’altra parte, quante persone, per lavoro, fanno quotidianamente qualcosa che non piace loro? Eppure lo fanno senza particolari difficoltà.

La motivazione intrinseca e quella estrinseca sono, in realtà, assolutamente complementari:

La prima è la stella polare che ci guida e non ci fa perdere l’orientamento; la seconda, oltre ad essere funzionale alla nostra esistenza – nella quale, come ben sappiamo, le cose che non ci va di fare superano quelle a noi gradite – ci garantisce di “ricaricarci” in termini di gratificazione.

Cosa succede, in pratica:

Stai buttando giù il tuo primo libro. È il tuo sogno, lo è sempre stato. Siccome il blocco dello scrittore è un figlio di buona donna, è facile che si manifesti all’improvviso, quando magari hai passato giorni a scrivere senza interromperti. Ti disperi un’ora, ti disperi due ore: poi te ne vai fischiettando perché in fondo, che cavolo! Mica te l’ha ordinato il dottore di scrivere un libro! Eppure, questa cosa non ti va giù.

In fondo, quando la nostra motivazione estrinseca cede, possiamo deludere qualcuno: quando è quella intrinseca a tradirci deludiamo noi stessi.

Cosa possiamo fare:

Quello che abbiamo detto, è che motivazione estrinseca ed intrinseca nascono da processi diversi. Quello che non abbiamo detto, è che sono fortemente legate.

Pensaci: quando non fai qualcosa per qualcuno, non ci resti forse un po’ male personalmente? E quando non riesci in qualcosa in cui credi fortemente, non soffrono con te anche i tuoi cari?

Il consiglio quindi è di allenare entrambi i tipi di motivazione: quando l’una fallirà, l’altra verrà in tuo soccorso!

– Da motivazione intrinseca a motivazione estrinseca

La tua concentrazione è venuta meno in qualcosa che hai cominciato di tua volontà, ed il blocco dello scrittore ti ha assalito? Parlane con qualcuno importante per te, con qualcuno il cui giudizio per te sia particolarmente significativo. Lo so, confessare un fallimento o presunto tale non sempre è piacevole, ma servirà a dividere le responsabilità di qualcosa che per te è importante fare ma in quel momento non ti va di fare. Quando tu non te la sentirai di affrontare nuovamente il foglio, ci sarà sempre dietro di te qualcuno pronto a pungolarti e a dire “allora?”. Vedrai che ricomincerai a scrivere. Per te, ma anche per mettere a tacere il grillo parlante alle tue calcagna.

Sì, ma non è che non mi va di scrivere, è che non ci riesco”. Fidati, è solo una tua impressione: dopo ti spiegherò perché non  è un problema di capacità.

– Da motivazione estrinseca a motivazione intrinseca

Devi fare assolutamente qualcosa, ma non riesci a cominciare? Approfondisci. Perdi qualche minuto su internet, cerca informazioni su questo argomento che proprio non ti va giù. Fatti delle domande. La curiosità è una molla potentissima per cominciare a fare qualcosa. E se proprio non ti viene in mente nulla? Copia e incolla: dopo di che rileggi, ed elimina qualcosa. Riscrivi le frasi. Cerca altro materiale. Ripeti. Attenzione, non ti sto suggerendo di plagiare (nel caso tu voglia comunque utilizzare del materiale d’altri, cita sempre le fonti): ti sto solo suggerendo di affrontare a piccole dosi il compito della scrittura, partendo dalla base – la copia – per arrivare al vertice della piramide, il contenuto inedito. Non c’è blocco dello scrittore che non passi con una procedura step by step di questo genere.

Aiuto, ma non mi vengono le parole!

Fidati, le hai.

Ogni giorno produci centinaia di migliaia di parole, ogni giorno dalle tue dita esce una quantità di materiale scritto da fare. Probabilmente penserai che non ti vengono su comando, che la professione dello scrittore dovrebbe autoalimentarsi in base alla propria ispirazione. E invece no.

L’ispirazione è un muscolo e come tale va esercitato.

Ritorniamo all’esempio di chi scrive per lavoro: un buon 30% degli argomenti affrontati dai giornalisti di settore non sarà esattamente nelle loro corde; se poi pensiamo alla stampa generalista, questa percentuale salirà drasticamente. Il sapere mondiale è, più o meno, sconfinato, e non possiamo essere esperti di tutto.

Ancora più in generale: non ci può piacere tutto.

Nel mio lavoro di comunicatrice, scrivo in media 25/30 comunicati stampa alla settimana, almeno una trentina di post su siti specialistici ed un numero pressoché infiniti di testi per brochure, locandine e siti per qualche cugino di qualcuno ricco di iniziativa ma meno di capacità espressive. A fine giornata sono decisamente stanchina, ma porto a termine tutto quello che mi sono prefissata.

Come faccio?

Ho uno script; banalmente, le 5 W del giornalismo anglosassone (When, Where, Who, What e Why) sono il più efficace vademecum del giornalismo che io riesca ad immaginare. Rispondi a queste 5 domande, e sei già a metà strada.

Detto ciò, ecco a cosa io presto attenzione:

Il mio lettore conosce ciò di cui sto parlando?

A seconda della risposta che mi darò, dedicherò una riga, un paragrafo o qualcosa di più per contestualizzare al meglio l’oggetto del mio articolo. Partendo da quella che sembra essere una formalità (riportare almeno una volta per intero le diciture normalmente sostituite da acronimi) posso giocare con i livelli di approfondimento, creando curiosità in chi legge e rispondendo ad una semplice domanda: perché mi dovrebbe interessare quello che stai scrivendo? Abbiamo recuperato qualche altra riga di testo.

Qual è il mio obiettivo?

Emozionare, convincere, informare? Ovviamente il mio registro stilistico dovrà variare a seconda dei casi, ma ne parleremo in un’altra occasione. Per il momento ci interessa semplicemente chiudere il pezzo. Possiamo creare una vera call to action, suggerendo ai nostri lettori cosa fare (per aiutarci? Per ottenere qualcosa? Per saperne di più?) in maniera semplice, anche senza troppa filosofia. O lasciare un finale aperto, se il testo ce lo permette.

Respira, abbiamo finito. Di fronte a te c’è un testo più o meno completo, che deve soltanto essere riletto.

Come dici? Che queste regole valgono soltanto per la scrittura professionale?

Non è vero, o almeno lo è solo in parte.

Se raccontarsi, raccontare, sono azioni istintive, farlo con metodo e con un obiettivo preciso richiede disciplina. Tanta. Devi trovare il tuo flusso di scrittura (in inglese, workflow), darti dei tempi ed un obiettivo preciso (un’ora al giorno? Due ore nel weekend?). E, quando il blocco dello scrittore arriva, bisogna prendersi per le orecchie e scrivere comunque. Mantenendo alta la motivazione, ma senza cedere allo scoramento.

Queste sono le mie strategie per fronteggiare il blocco dello scrittore, o per lo meno per non sentirmi troppo abbattuta quando mi capita.

Tu le hai mai provate? C’è qualcosa che potresti aggiungere?

Come scrivere una buona e-mail: i tre vizi di scrittura da correggere subito

Come scrivere una buona e-mail: i tre vizi di scrittura da correggere subito

Mi lancio subito in una premessa doverosa: la grafologia non è per me.

Occhielli più o meno dilatati, la variabilità della pressione sulla carta, la prossemica delle lettere: in generale potrei dire – con una buona dose di faccia tosta – che si prende tutto un foglio per scrivere abbia una personalità più estroversa di altri, ma per quanto concerne me – ed espressamente me, che sono una psicologa ante litteram – questo tipo di osservazioni hanno pressappoco la stessa valenza dell’oroscopo.

Chiarito ciò – e salutando caramente chi della grafologia ha fatto una professione – io ho come parametro di valutazione esclusivamente il Nanni Moretti – pensiero:

Chi parla male, pensa male. E lo stesso avviene se si scrive male.

Ora, non è che si debba essere tutti Manzoni, ma se ricevo una e-mail palesemente aggressiva, con punteggiature casuali e – cosa che mi fa arrabbiare più di ogni altra – con toni esageratamente confidenziali (soprattutto se parliamo di e-mail di lavoro) – partirò inevitabilmente prevenuta contro l’anonimo scrittore. Pensateci: una buonissima percentuale dei nostri “primi contatti” con altre persone avviene per e-mail, o comunque per iscritto. Vediamo quindi cosa possiamo fare per aumentare la probabilità di un secondo incontro – soprattutto se, come spesso avviene ai giorni d’oggi, il primo contatto era dovuto a ragioni frivole e veniali come, che so, la ricerca di un lavoro o l’avvio di qualche collaborazione.

Linguaggio burocratico? No, grazie

Tra i punti fermi che hanno contrassegnato la mia infanzia, uno dei miei preferiti è la serie a puntate de I promessi sposi di Solenghi, Marchesini e Lopez. Se non sapete di cosa sto parlando, andate via da qui che siete troppo giovani e con voi non ci voglio parlare. O meglio ancora, recuperate quel capolavoro, e poi avremo qualcosa da dirci. Per farla breve: ad un certo punto Lorenzo, o come dicevan tutti Renzo, si reca da Pennellone, il padre di Lucia (magistralmente interpretato da Pippo Baudo), per domandargli la mano della sua amata. Il giovane Renzo, visibilmente emozionato, apre la propria calorosa dichiarazione con una frase che nelle sue intenzioni sarebbe stata di grandissimo effetto “Ho l’ardire di venirvi a dire”. Nella realtà l’effetto c’è, ma non è quello sperato: a Renzo, uomo del popolo, tutta quell’allitterazione fa arricciare la lingua e solo dopo diversi tentativi riesce ad esprimere il suo concetto. Il linguaggio burocratico funziona così: servirebbe a darci un tono, ma nei fatti spesso è solo esilarante.

Con la presente si allegano n°10 fatture…”. Ma chi sei? Che vuoi da me?

Segnatamente alla comunicazione inviataLe, intendo rivolgerLe i miei più cordiali saluti”. Ma chi usa il termine “segnatamente” ? (io, ma ho una serie di problemi che non mi fanno abbandonare alcuni vezzi linguistici).

Gli esempi sono infiniti, ma l’effetto finale è sempre lo stesso: ribadiamo una profonda distanza tra noi e il nostro interlocutore, lasciando intendere che quella stessa comunicazione sarà mandata, in copie pressoché identiche, a milioni di altre persone. Ora, nessuno di noi crede davvero di essere unico e speciale in tempi come quelli attuali, dove”l’invia a tutta la rubrica” è prassi comune, ma considerando che stai scrivendo proprio a me, possiamo anche tentare un contatto più genuino. Inoltre, diciamoci la verità: chi, nel mondo reale, parla davvero così?

Ok, magari siamo persone insicure e avere uno schema standardizzato ci può aiutare: siamo davvero sicuri che sul lavoro vogliamo essere percepiti come persone che non riescono proprio ad uscire da convenzioni così desuete?

Nel dubbio, scrivi come mangi. 

Suvvia, non faremo certo una figura peggiore se scriveremo “buongiorno, vi allego queste 10 fatture”,  né impegneremo molto più tempo.

Botta e risposta: perché non funziona

I social network ci permettono con pochi click di annullare le distanze e di parlare con chiunque in ogni parte del mondo: la partecipazione a discussioni con chiunque e su qualsiasi argomento ha reso inattuali  (e verrebbe da dire “purtroppo” ) alcune prassi che useremmo nel mondo reale, come l’attenzione al contesto o l’analisi dei nostri interlocutori .

I flame che esplodono quotidianamente su Facebook sono la dimostrazione che, anche sui social media, commentare una notizia dicendo la prima cosa che ci viene in mente è una pessima idea nel 99% dei casi: e allora perché lo facciamo anche quando scriviamo un’e –mail?

“Dammi questa informazione”, “Perché non mi avete chiamato?”, “A che ora aprite?”: a tutti questi autori ignoti chiederei sempre di rimandarmi la loro richiesta in carta intestata e bollata con la ceralacca così, per la legge del contrappasso.

Partiamo dalle basi: è vero, su Facebook è tendenza diffusa ed accettata utilizzare il “tu”, ma prima di passare a forme così personali anche sulle e-mail, aspetterei che si sia almeno consolidata un minimo di coscienza. Luisa Carrada de Il Mestiere di Scrivere da questo punto di vista è meno rigida di me, ma la mia esperienza personale mi suggerisce che, almeno in alcuni contesti lavorativi, è meglio mantenere almeno per un po’ un maggiore distacco (un esempio per tutti: la scuola).

Nel Terzo Settore, nel quale lavoro da oltre 10 anni, presentarsi con i propri titoli professionali sembra quasi una bestemmia: i vari dottori e dottoresse sono scherniti in allegria, perché tutti ci vogliamo bene e basta il cuore che metti nel fare le cose. Eppure, come dicono i saggi dalle mie parti A tropp’cunferenz’ ‘e mamm’rà mala crianza (letteralmente, troppa confidenza genera maleducazione).  Quindi, evitiamo.

Meglio essere un po’ formali, che troppo confidenziali dal primo momento.

Le e-mail non sono Facebook. La vita reale non è Facebook.

Presentati: Di’ chi sei, cosa vuoi.

Spiega a chi stai scrivendo come mai hai il suo contatto, imposta un po’ di cornice e, alla fine, saluta. Forse penseranno che tu sia un po’ zelante, ma zelante è assai meglio di scostumato.

L’asincronia della parola scritta: c’è una vita oltre lo schermo

In tempi lontani, erano i piccioni viaggiatori scandivano il tempo delle nostre comunicazioni. Liete e tragiche novelle erano affidate alle ali di pennuti spesso meno veloci degli eventi che erano chiamati a rappresentare (c’è la peste? Maddai! ). Poi sono arrivati servizi postali, telefoni  e infine internet. È vero, noi siamo abituati ad una comunicazione sempre più rapida e sincronica, ma a tutto c’è un limite: nel caso specifico delle e-mail, il limite è riposto nel fatto che non siamo sempre davanti al pc. Né – per fortuna, aggiungerei – abbiamo sempre in mano il nostro smartphone. Nel caso specifico delle e-mail professionali, può inoltre capitare che, durante il fine settimana, il nostro interlocutore non scarichi proprio la posta perché – indovinate? – non sta lavorando.

Molto spesso chi scrive lo fa per sedare un’ansia immediata: butta sul foglio i propri quesiti, ed invia. La telefonata spesso è vissuta come un atto più invadente: non si chiama prima di una certa ora, non si chiama all’ora di pranzo, non si chiama dopo le 20. Le e-mail sono sempre lì, a disposizione: spesso non c’è neppure un segnale sonoro del fatto che siano arrivate, quindi possiamo essere abbastanza certi di non disturbare.  Il punto è che la e-mail, per quanto moderna ci possa sembrare, è uno strumento di comunicazione asincrona non meno di quanto lo siano piccioni e lettere tradizionali: non è sottesa, infatti, la compresenza del mittente e destinatario del messaggio, così come avviene ad esempio per una telefonata.

Per farla breve:

Tu puoi scrivere quando vuoi, ma il tuo interlocutore ti risponderà quando potrà, se non quando vorrà.

Insistere per un riscontro, soprattutto a ridosso di feste, ponti ed occasioni nelle quali è facile che non si consultino quotidianamente le e-mail, non è soltanto fastidioso per chi vi legge, ma anche un po’ ingrato: lasci passare infatti il pregiudizio che io non ti voglia rispondere, quando magari non ne ho avuto neppure il tempo. Aspetta un paio di giorni prima del recalling: chi non ti ha ancora risposto magari è stato preso da altro, e se è un buon professionista ti ringrazierà per la tua attenzione.

Un paio di consigli sparsi, a tal proposito:

– In caso di bandi, scadenze urgenti etc…non usare le e-mail a meno che non vi sia stato espressamente richiesto. A volte negli uffici c’è una sola persona deputata a controllare un indirizzo di posta elettronica: cosa succede se, a 12 ore dalla scadenza del progetto, all’impiegato viene un febbrone da cavallo? Meglio non rischiare.

– Per chi riceve le e-mail: sarebbe carino impostare un servizio di risposta automatica che informi il vostro interlocutore che, ad esempio, non risponderai dal 24 dicembre al 2 gennaio, o che gli uffici riapriranno direttamente lunedì. Non è scontato, e non lo è soprattutto ai tempi di Amazon, abituati come siamo ad avere risposta immediata. Se invece l’e-mail  richiede un’analisi approfondita che non hai il tempo di fare subito, o non ti pertiene, dillo subito. Girala a chi di dovere, comunicando al tuo interlocutore l’avvenuto passaggio di consegne, o scrivi, molto sinceramente “devo prendermi un paio di giorni” (ma non dimenticartene!). Usa, insomma, la stessa cortesia che useresti dal vivo.