Poche cose mi interessano meno di Sanremo. No, non sono snob: è che proprio non ho la pazienza di stare di fronte al televisore per più di un’ora, figuriamoci per una roba che ha un principio di serialità e che ruota attorno, peraltro, a cose che mi interessano ancora meno di Sanremo stesso.
Persino i vestiti, che sono una cosa che di solito attira in maniera consistente la mia attenzione, rubano al mio zapping convulso pochi istanti: il tempo di dire: è bello/è brutto/fa volgare, e me li sono dimenticati.
Una cosa che normalmente, invece, mi ruba abbastanza tempo ed energie è spiegare ai giovani – ed in particolare alle giovani donne – che esiste una cosa chiamata autodeterminazione. Che non è un vestito, un atteggiamento, un modo di fare a decidere cosa sia una persona e che, soprattutto, non sia nessuna di queste cose a decidere se si è meritevoli o meno di qualcosa. Che i miei gusti sono, per definizione, solo e soltanto miei e che non sono categoria probante del bene e del male.
L’autodeterminazione è un diritto: significa decidere di sé e del proprio destino nei limiti della libertà altrui e della legge. Mi piace quello che fai? Forse sì, forse, no; ma se non stai commettendo un crimine e non stai facendo qualcosa ai miei danni, potrò al massimo andare a piagnucolare dal mio parrucchiere.
L’autodeterminazione è uno status quo, sei tu che decidi di affermarla per te stesso: è assai insolito, e profuma di fascismo, pensare che il diritto all’autodeterminazione possa essere concesso nella sostanza, nei tempi o nei modi. Che poi è quello che successo ieri alla povera Diletta Leotta, giornalista di Sky particolarmente nota per l’oggettiva avvenenza e per il furto di qualche mese fa di alcuni suoi scatti intimi.
La Leotta, invitata per dire la sua in occasione della Giornata contro il Bullismo, pur nella vergogna e nel dolore del momento, non si è tirata indietro e ha denunciato il sopruso subito: ha quindi invitato tutti coloro che si trovino nella stessa situazione a fare altrettanto.
Bene, brava, bis. Il punto è che la giovane Leotta ha ben pensato di portare sul palco dell’Ariston questa sua importante testimonianza indossando un vestito decisamente poco minimal: corpetto strizzato, gonna con maxi spacco e nessuna intenzione di nascondere le proprie grazie.
È così avvenuto che Diletta Leotta, dall’essere palesemente una vittima – degli hacker, dei maiali che hanno condiviso le sue foto, di chi ha riso di lei – è divenuta colei che parla di privacy con la patata al vento. La giustiziera con le tette da fuori. Ma guardala che incoerente! Prima si lamenta che diffondono le sue foto nature e poi non si veste per andare in televisione!

Opinionisti, maitre a penser più o meno discutibili e donne di spettacolo più o meno vicine al tema dell’emancipazione femminile si sono espressi sulla questione con poco garbo e, soprattutto, nessun rispetto di una vicenda umana assai dolorosa.
Fatemi spiegare qui, in pochi punti, dov’è il tremendo bias cognitivo che ci porta a pensare che una donna poco vestita sia una donna che merita un atteggiamento così terribile.
Lo spazio personale, ossia Se lo puoi vedere non è detto che sia tuo
Goffman definisce lo spazio personale come “lo spazio che circonda un individuo, dove la presenza di altri viene percepita come una violazione che provoca disagio e induce ad allontanarsi“[1].
Sappiamo tutti cosa intende Goffman: chi non sopporta di essere toccato sulle braccia, chi si sente a disagio quando vede i propri oggetti spostati, chi non tollera un contatto visivo prolungato.
Posso definire i miei spazi personali anche con l’interazione: se IO, in scienza e coscienza, ti mando le foto del MIO culo, posso dire con certezza che siamo intimi; se IO mando le foto del mio culo a tutta la mia rubrica, vuol dire che non ho problemi né col mio culo né con i miei amici, e va ugualmente bene; se qualcun altro manda foto private del mio culo in giro beh, abbiamo un problema. E questo a prescindere dal fatto che io tenda a mostrare o meno il mio culo in giro.
In conclusione: posso andare in giro vestita da palombaro, da Wonderwoman o essere completamente nuda, ma sono comunque io a decidere se e come le mie immagini private di nudo debbano girare. Dio, ma lo stiamo davvero dicendo?
La colpevolizzazione della vittima
“Se l’è cercata”. Quante volte lo abbiamo detto, pensato, o lo abbiamo sentito dire?
Ma cosa vuol dire “cercarsela”? Posso cercarmi una promozione, se studio; una faccia di schiaffi, se sono provocatoria e indisponente; una sbronza, se mi ubriaco. In molte cose, ci sono evidenti rapporti causa/effetto; ancora più spesso ci sono correlazioni.
Cos’è una correlazione? Vi faccio un esempio liberamente tratto dalla mia autobiografia: all’aumentare dei dolci a casa mia aumenta il mio girovita. Questo perché ingrasso per osmosi? No, perché ad un certo punto me li infilo in bocca: non basta la loro compresenza con la mia persona incolpevole. Eppure posso garantire che mai,e dico mai, dei cioccolatini mi sono saltati in bocca. La correlazione è quindi, in breve, “la possibilità che in concomitanza di un evento ne avvenga un altro”. Ripetiamo insieme: non è un rapporto di causa/effetto, ma di concorrenza di più variabili.
Molti uomini si dicono irresistibilmente attratti dalle donne che infastidiscono per strada, ma sono abbastanza convinta che la correlazione tra la presenza di donne in un luogo X e la molestia sia abbastanza debole: quali possono essere quindi altri eventi concomitanti? Donne da sole? Un branco di uomini? Un abbigliamento provocante?
La risposta è che dietro le molestie c’è solo una causa: la presenza di un molestatore. Alcuni elementi fungono da rinforzo positivo (ad esempio, altri uomini che esaltano le “doti” del loro amico), altri ancora possono rappresentare una facilitazione (donne in piccoli gruppi o sole), altri infine sono ormai riconosciuti universalmente come giustificazioni “valide” (un abbigliamento alla “Leotta”, per capirci.
Purtroppo, la psicologia ingenua tende a fare di tutta l’erba un fascio, e tutti questi elementi diventano cause non solo verosimili, ma anche rinforzate dalla comunità. Poter prevedere l’occorrenza di un evento ci serve ad esorcizzarlo: e pensare che possiamo mettere in campo delle strategie per evitarlo, che possiamo insegnarle alle nostre figlie, ci rassicura. Quindi dobbiamo pensare che solo le zoccole saranno molestate, e che le zoccole sono quelle che hanno un aspetto vistoso. Purtroppo la realtà ci insegna ben altro, ma dire che qualcun altro è cattivo è sempre terapeutico.
In realtà…
L’abbigliamento non ci definisce: può aiutarci ad assomigliare all’immagine che abbiamo di noi (più sensuale, timida, spiritosa..), ma non dice nulla di più
Essere sexy e volerlo dimostrare è legittimo, e non c’è nulla di male
Il fatto che gli uomini ribadiscano certe convenzioni sociali è terribile; il fatto che le donne facciano altrettanto è semplicemente suicida.
[1] Goffman, E., Interaction ritual. Essays on face-to-face behavior, New York 1967 (tr. it.: Il rituale dell’interazione, Bologna 1988).