Cose che abbiamo imparato dalla pubblicità – Capitolo 1

Cose che abbiamo imparato dalla pubblicità – Capitolo 1
  • Gli uomini non si fanno il Bidet

Ammetto, con candore e innocenza, di aver diviso casa nella mia vita con pochi uomini,  E CHE TUTTI LORO SI FACEVANO IL BIDET. Così, in assenza di apparenti velleità, senza girare per casa roteando una salvietta sull’indice alla ricerca dell’approvazione altrui. Sono arrivata a credere che fosse un’abitudine piuttosto comune, un complemento all’igiene quotidiana che varcasse i confini dei gameti.

E invece basta accendere la Tv e SBAM! Fior di ginecologhe, di “dottoresse ma anche madri” (perché la maternità, ricordiamolo, ti dà 20 CFU extra in qualunque università, ti abbuonano pure un paio di esami), di cicliste con mai risolti pruriti intimi ti consigliano IL! FENOMENALE! PRODOTTO” LAVAPUDENDA!. Ora, mai che ci sia un uomo negli spot.

L’intrinseca femminilità del detergente intimo è ben illustrata dalla Lactacyd, che di recente ha optato per una campagna fotografica a dir poco didascalica (in copertina e anche qui sotto):

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L’immagine, ripresa da Giornalettismo, ci permette di introdurre anche la polemica che è scaturita da una scelta del tutto nuova per la pubblicità italiana.

La soluzione adoperata dai creativi Lactacyd è stata quella di utilizzare la parte per il tutto, suggerendo implicitamente l’applicazione topica del prodotto (cosa non scontata: vi ricordate i beveroni a base di Tantum Rosa?).

Molti hanno criticato questo tipo di scelta, che di fatto riconduce tutto l’essere donna ad una parte anatomica ben precisa: un punto di vista ragionevole, ma personalmente non la vedo così. Lactacyd intimo in fondo è un prodotto che ha UNO E UN SOLO SCOPO: da un certo punto ho addirittura apprezzato la “normalizzazione” di una sezione del nostro corpo che c’è, esiste, e per una volta non è rappresentata neppure in modo particolamente volgare.

I commenti più eclatanti, tuttavia, appartengono a queste categorie:

  • Quelli che “eh, ma che la nobilitiamo a fare, la f… è brutta” (marò, pure questo complesso dobbiamo tenere)
  • Quelli che “e per un detergente al maschile che faremo?” (il che riprende alla grande la domanda del mio articolo, ma anche un falso problema: ommioddio, come faremo a riprodurre un pene?)
  • Quelli che “Ma cos’è”?”

Scusate, devo riprendere il terzo concetto:  davvero c’è qualcuno che non riesce a capire a cosa alluda l’immagine? 

Certo, dobbiamo ammettere che la fisiologia riproduttiva femminile sia un tantino più complicata di quella maschile, non tutto è esposto, il termine “vulva” per molte donne è ancora assai confuso. Abbiamo roba dentro, roba fuori: un bel casino!

Tuttavia, come dicono gli esperti del settore: I MASCHI IL SEDERE NON SE LO PULISCONO?

Meno male che Chilly ha deciso di parlare agli uomini grazie a questo spot:

 

 

Un bel culo (accompagnato da un’evidente dismetria degli arti inferiori , povera ragazza a zoppicare così) ci invita a lavarci ai piani bassi. Peraltro apprendo (e qui sono senza giustificazioni, sono cresciuta con una madre e due sorelle, dovrei saperlo) che il momento del bidet è una specie di gioco di società, un momento di convivialità da condividere con le amiche più care! (non sappiamo se a un certo punto arriva un idraulico con un grosso tubo, ma non dimentichiamoci che IL RISCIACQUO è FONDAMENTALE!)

Grazie, Chilly, grazie: adesso sì che gli uomini comprenderanno il messaggio!

(Volete comunicare alla Chilly quanto avete apprezzato questo spot? A questo link  troverete il bell’articolo di Arianna di Occhio allo Spot sulla questione nonché i riferimenti da contattare. Io l’ho già fatto <3)

 

 

Nuovo spot Chicco: un calcio di rigore sbagliato

Nuovo spot Chicco: un calcio di rigore sbagliato

A me piacciono i rossetti, assai.

Ne ho in diverse tonalità di fucsia, un paio color mattone, uno persino nero. I miei preferiti sono i rouge, e credo di averne della stessa, identica sfumatura ma di diverse marche.

Detto questo, non sono certa mi stiano benissimo: l’altro giorno ho indossato un lipstick rosso rossissimo per andare a lavoro e un frequentatore saltuario della nostra sede ha pensato di aver improvvisamente scoperto la verità su di me.

Ossia, che sono una trans (spoiler: no).

Il mio look è abbastanza riconoscibile: lunghi capelli ricci, linee pulite, scarpe un po’originali, trucco leggero: il rossetto rosso non fa parte della mia brand identity,  e quando lo indosso risulto meno “me”.

Che cosa intendiamo per Brand Identity? Fondalmente, quello che rende riconoscibile e “identificabile” un marchio: l’uso di determinati colori, il font adoperato, ma anche la scala di valori che tradizionalmente gli attribuiamo.

Un esempio molto chiaro per tutti noi è quello della Coca Cola: ci fa pensare al rosso, ad un carattere corsivo inconfondibile, ad allegre scampagnate in compagnia.

Chiudete gli occhi: sentirete il suono della bevanda che frizza, vedrete ragazzi che ridono, forse vi tornerà in mente questa canzone. Chi ha creato la Brand Identity della Coca Cola, sentite a me, merita i soldi che ha.

Ora pensiamo alla Chicco: sfondo blu, font teneramente agé, un tocco rosso a vivacizzare un effetto altrimenti troppo “marinaro“.

Quando penso a Chicco penso a dei bambini. Tanti bambini, tutti biondi e bellissimi. Biondi, bellissimi e nel pieno delle loro attività di gioco. Non è casuale che molti di noi colleghino la parola “Chicco” al celeberrimo payoff  “Chicco, dove c’è un bambino“.

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Ovviamente, ci sono delle eccezioni. Sì, io e il grafico della Lorenzin abbiamo studiato alla stessa scuola

Non esistono adulti nel mondo Chicco, al massimo qualche mamma che accarezza amorosamente la zazzera di un pupetto attivamente impegnato ad annientare ogni capacità mentale dei suoi conviventi con quei cazzo di giochini sonori. 

Quindi adesso mi spiegate: che cosa è questo?

La Chicco ha deciso di cavalcare la delusione degli italiani che quest’anno non avranno il loro mondiale prendendoli per quello che è loro più caro dopo il calcio: i loro attributi sessuali. Accoppiamenti da tergo, cavallerizze sul tavolo del salotto buono, atti osceni in luogo pubblico in quello che apparebbe un posto deputato a cerimonie: i buoni italiani che non potranno seguire i loro eroi mentre rincorrono un pallone potranno consolarsi con le loro gesta erotiche.  E tutto questo perché?

Perché l’Italia ha bisogno di bambini. 

Fino all’ultimo ho sperato in una svolta satirica, e che tutte queste gravidanze made in 2018 servissero almeno regalarci tra una ventina d’anni calciatori un po’ meno mammolette di quelli che si sono fatti eliminare ancor prima di sbarcare in Russia: e invece no. 

I ragazzi del ’19 serviranno a rendere di nuovo grande l’Italia. 

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Don azionista di maggioranza della Chicco 

Oddio, ma non abbiamo già sentito questa storia?

Quando parlammo del Fertility Day ci ritrovammo ad affrontare il tema della Dissonanza Cognitiva: ossia lo stridente contrasto tra un interlocutore che dovrebbe essere autorevole (in quel caso il Ministero della Salute), uno studio preliminare alla campagna che mia nonna Antonia che teneva la quinta elementare e quattro figli tutti partoriti sotto i vent’anni lo faceva meglio e una morale che Gesù zia, lo so che tengo 35 anni e mi sto a fare vecchia ma NO, FIGLI NON NE VOGLIO?

Allora si trattava di una campagna di comunicazione che decise di puntare i riflettori – in maniera ovviamente catastrofica, non c’è neppure bisogno di dirlo – su una tematica reale e che, in effetti, ha tutte le caratteristiche per essere affrontato a livello istituzionale: il crollo delle nascite.

Insomma: c’abbiamo le pensioni da pagare (risate registrate), i cicli di produzione che rischiano di fermarsi, intere generazioni che non porteranno avanti il loro DNA.

Che un Ministero se ne occupi, ha senso: che lo faccia non il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali ma il Ministero della Salute (confondendo clamorosamente un fenomeno sociale come il crollo delle nascite con un tema di interesse sanitario come il calo della fertilità) molto meno, ma ce lo siamo già detti. 

Sapete chi non ha proprio il diritto di dire la propria? Esatto, una ditta che produce prodotti per l’infanzia, per la quale i vostri figli sono, niente di più niente di meno che dei clienti.  Peraltro, per quanto mi risulta, la Chicco non è una Onlus: quei prodotti li vende. È come se a chiedervi di fare figli non fosse vostra zia ricca, quelle che vi dà giusto 10 euro a Natale e poi vi ignora per tutto l’anno, ma che so, il lattaio sotto casa.

Fatta questa osservazione strettamente etica (poi potremmo ricordare tutti, per l’ennesima volta che LA GENTE NON FA FIGLI PERCHè NON CI SONO SOLDI, ma anche questo argomento è stato abbondantemente sviscerato), ritorniamo al punto di partenza: alla Brand Identity.

Quello che normalmente si consiglia ad un’azienda che ha trovato il proprio Tone of Voice è, ne più né meno: se funziona, non cambiarlo.

La Chicco è la leader italiana dei prodotti dell’infanzia: può fare praticamente qualunque cosa, le famiglie la adoreranno comunque. Chicco è infanzia, Chicco è apine svolazzanti e sorrisi innocenti, Chicco gronda zucchero e miele. Chicco è dove c’è un bambino. 

Non so cosa sia successo, ma qualcuno ad un certo punto deve aver strillato fortissimo in agenzia: “Ho trovato! Facciamo qualcosa di ironico!”.

E da qui i Mondiali, gente che piange, lo scientificamente dimostrato Baby Boom che accompagna ogni partecipazione dell’Italia ai Mondiali (io sono nata alla fine del 1983: desumo che i miei genitori si siano accorti della vittoria dell’Italia sei mesi dopo che era avvenuta).

E se non ci sono i Mondiali? Tranquilli, si fa l’amore lo stesso: e l’anno prossimo tutti in un passeggino Chicco.

Ma come” avrà detto qualche stagista “quindi solo le coppie stabili con un progetto di genitorialità possono far sesso? Guardate che facciamo la fine del Fertility Day”

E quindi, il capolavoro: “Che sia per amore o perchè vi va, amatevi”. Certo, purché sia un sesso riproduttivo. Io amo farmi ingravidare nel corso di un incontro sessuale casuale. Credo sia quello lo scopo ultimo del sesso ricreativo.

Ovviamente le coppie omosessuali non possono trovare alternative piccanti ai Mondiali, loro mica possono avere figli (ah già, dimenticavo: i gay non amano il calcio, in televisione i gay guardano solo la Carrà ); le coppie sterili guarderanno, non so, il Badminton.

Come se non bastasse, perché non stravolgere proprio tutto e cambiare anche il payoff?

E così, “Chicco, dove c’è un bambino” è diventato “Chicco, dove ci sarà un bambino”. 

Mi vuoi forse dire che la Chicco ha cominciato a fare abbigliamento da donna, cosicchè da potenziale cliente futura potrò già trovare qualcosa per me? Articoli da elettrauto? Prodotti per la pulizia della casa?

Perché, cara Chicco, su una cosa siamo d’accordo: il nido di un bambino non è fatto solo di giocattoli e abitini. È fatto di sicurezza, è fatto di futuro, è fatto di stabilità: tutte cose che oggi non sempre sono garantite. Ci sarà un bambino laddove ci sarà la possibilità di crescerlo, ma anche la voglia: perché, cara Chicco, non so come tu hai passato i mondiali trascorsi, ma io avevo sempre una birra in mano e del cibo spazzatura da dividere con degli amici. Un test di ovulazione, mai. 

Ciò detto, abbiamo di fronte a noi un’azienda che ha provato a riposizionare la propria immagine sul mercato rinnegando la propria immagine rassicurante a favore di una presunta modernità (ricordiamo tutti: messaggio degno degli degli anni ’20, no gay, no persone sterili. Ok). Ci ha provato senza averne un reale bisogno: vendere prodotti ai genitori di un bambino è, per la Chicco, come segnare un rigore a porta vuota. La Chicco ha fatto come me quando mi metto il rossetto rosso: si è travestita da qualcos’altro. Il che, quando sei il migliore, non è esattamente un’ottima idea. 

 

 

Dalla bambola dei sogni al marketing aspirazionale: il ritorno (in grande stile) di Barbie

Dalla bambola dei sogni al marketing aspirazionale: il ritorno (in grande stile) di Barbie

Quante di noi hanno giocato da bambine con la Barbie? Feticcio immancabile nelle camerette delle attuali trenta/quarantenni – e forse custodite ancora da qualche fanciulla degli anni ’90 – la bambola più amata, criticata e iconica di sempre ritorna dopo un decennio non proprio brillante nelle case delle bambine di oggi.

Passando dal cuore di chi non l’ha mai dimenticata: le bambine di trent’anni fa, le mamme degli anni 10. E dandoci, come sempre, un’eccellente lezione di marketing.

Dopo un periodo decisamente negativo, sembriamo tutti pronti al rientro in scena di Barbie.

Nei primi anni duemila, la bionda più famosa del mondo sembrava già aver passato il testimone de La più amata dalle bambine a nuove leve decisamente più trasgressive e moderne (e anche un po’ più maiale, you know what I mean), come le Bratz: una lenta agonia, per la quale l’avvento di tablet e applicazioni for kids furono il colpo finale.

Ben pochi, in realtà, provarono a difendere la Barbie da quel brusco declino: con quelle tette e quel bacino così stretto, la figlia prediletta della Mattel non rappresentava esattamente il modello ideale per delle preadolescenti che, pochi anni dopo aver riposto le bambole sulla mensola per l’ultima volta, avrebbero riguardato il proprio corpo con severità ben maggiore di quella che avevano conosciuto nell’infanzia.

Tutti quei soldi piovuti da chissà dove, i tacchi 14 fissi e un’ossessione da TSO per il rosa non hanno perorato molto la causa di Barbie, divenuta soprattutto dopo gli anni ’90 il simbolo della frivolezza femminile. Un bel problema, soprattutto in anni in cui andava ridefinendosi il principio di parità di genere, dopo la sbornia esibizionista degli anni ’80: un’evoluzione di costume che passò, purtroppo, anche dalla constatazione che mai avremmo potuto avere quello che desideravamo. 

Ecco l’indimenticabile contributo alla scienza degli Aqua, che con il loro immortale pezzo Barbie Girl ci hanno restituito un prezioso ritratto della Barbie ridens, chiaramente accompagnata da un Ken in piena Sindrome di Stoccolma.

Un triste finale per una bambola che, quarant’anni prima, rappresentò per le bambine dell’epoca la dirompente novità di non giocare più accudendo qualcuno, ma inscenando col tramite di una bambola già adulta sogni e desideri non necessariamente connessi alla maternità.

C’era bisogno di un’operazione di riposizionamento del prodotto sul mercato, che sovvertisse il giudizio negativo che negli anni si era andato a consolidare contro le Barbie.

Da questo punto di vista, la mostra Barbie. The Icon (partita in Italia da Milano nel 2015 e giunta poi a Roma e Bologna) ha rappresentato un interessante esperimento culturale, nonché il primo passo di una strategia commerciale da veri intenditori.

La Mostra, prodotta da 24 Ore Cultura – Gruppo 24 ore in collaborazione con Mattel e curata da Massimo Cappella, restituisce a Barbie la dimensione che ha, indiscutibilmente, conquistato negli anni: quella di icona, nel senso più puro del termine.

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Anche gli Psicomunicatori vanno a vedere la mostra di Barbie, chiaramente per ragioni di studio.

Barbie rappresenta il sogno, la bellezza, un lusso che non conosceremo mai in un periodo della vita in cui tutto sommato non ce ne frega nulla: è irraggiungibile, ma ci va benissimo così.

L’installazione della mostra strizza assai intelligentemente l’occhio non alle bambine, ma alle loro madri: l’immagine coordinata, rosa di quel rosa Barbie che tutte noi abbiamo imparato a riconoscere fin dalla più tenera età, come un riflesso pavloniano; le immagini di repertorio, che raffigurano solo Barbie prodotte prima del 1995; l’interessante parallelo storico tra le Barbie prodotte e le vicende storiche di quegli anni, che spesso hanno visto il proprio coronamento in una bambola ad hoc; interi scaffali dedicati agli stilisti che hanno disegnato abiti per le Barbie, molti dei quali decisamente molto più sessualizzati di quanto un genitore desidererebbe per i propri figli; riferimenti continui ad una cultura pop che non è e non sarà mai appannaggio di chi nasce negli anni 10, ma neppure negli anni 2000.

Leitmotiv della mostra è stato “Barbie è una donna sicura di sé, che si mantiene da sola e ha fatto mille lavori”. Questo è vero, in effetti.

Abbiamo Barbie veterinaria, Barbie pilota, Barbie presidente degli Stati Uniti (prodotta in diverse versioni, la prima delle quali nel 2008; ben prima che una donna si avvicinasse al colpaccio nella Casa Bianca).

Negli ultimi mesi, la consacrazione. Una lunga serie di video virali diffusi attraverso i profili social di Barbie ha definitivamente premiato il new deal promosso dalla Mattel: con l’hashtag #PuoiEssereTuttoCiòCheDesideri (in inglese: #YouCanBeAnything) –  e le inevitabili condivisioni globali che danno il giusto tocco di viralità –  Barbie si fa protagonista di un processo di empowerment delle nuove generazioni, che possono cambiare il mondo con la loro forza. Questa intenzione in realtà è da sempre stato anche quello di Ruth Handler, creatrice della Barbie:

“My whole philosophy of Barbie was that, through the doll, the girl could be anything she wanted to be. Barbie always represented the fact that a woman has choices“.

Il punto di rosa resta sempre quello, abbacinante; ritornano a gran forza le bambole “professionali”, negli ultimi anni soppiantate da quelle che riproducevano uno stile anziché un altro (una probabile ed infelice imitazione delle Bratz); accanto alle bambine compaiono, per la prima volta, dei maschietti (in netto anticipo rispetto alle nostre abitudini, che classificano le Barbie come il gioco da femmine per antonomasia).

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Oh, cielo! Mio figlio gioca con le Barbie!

Il tone of voice è rassicurante, ispiratore: anche qui il messaggio è direttamente rivolto alle madri, con le quali il content manager sembra condividere le stesse attenzioni e premure che le sue lettrici (ed ex giocatrici di Barbie) riservano per la propria prole. I frequenti richiami alla storia di Barbie innescano in chi segue la pagina un piacevole viaggio nel tempo, il costante richiamo alla maternità mantiene l’attenzione sulla propria identità di genitore e potenziale cliente per procura.

“Ma che noia, quindi si pensa solo alle mamme?”. No, e qui c’è il vero genio.

(E c’è ovviamente un hashtag, in inglese #dadswhoplaybarbie)

Con questo spot le responsabilità di accudimento ritornano equamente sulle spalle di entrambi i genitori; ogni tentativo di machismo scompare di fronte al sorriso delle proprie bimbe e scopriamo che ben il 92% dei padri appoggia le scelte delle proprie figlie. Certo non è ben chiaro come questo sondaggio sia stato realizzato, e non capiremo mai quali tipi di resistenze un padre potrebbe opporre alle scelte di una seienne (giocare a campana anziché a mosca cieca? La gonna rosa invece di quella panna? Chissà), ma l’obiettivo è stato perfettamente centrato.

Famiglia. Amore. Sostegno. Futuro. Ed una bionda che abbiamo sempre preso per scema, ma che evidentemente tanto scema non è.

(Immagini presi dalla pagina facebook di Barbie Italia. Tranne quella della mia faccia. Beh, quella è la mia faccia).

Il Fertility Day e la dissonanza cognitiva: un manuale per trasformare un’idea carina in una catastrofe comunicativa

Il Fertility Day e la dissonanza cognitiva: un manuale per trasformare un’idea carina in una catastrofe comunicativa

Lo giuro, sono confusa.

A fine agosto  il Ministero della Salute ha lanciato il cosiddetto Fertility Day, “punto centrale” recita il sito istituzionale “ delle iniziative previste dal Piano Nazionale della Fertilità per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema della prevenzione dell’infertilità e quindi della salute sessuale e riproduttiva di donne e uomini”. Idea encomiabile, se non fosse stata per l’atroce campagna di comunicazione che ne è scaturita. Donne che si accarezzano la bocca dello stomaco, rubinetti che perdono, bucce di banana e amanti giocolieri: il tutto condito da frasi rassicuranti come “OCCHIO CHE TE STAI A Fa VECCHIA!!!” “GUARDA CHE TE SE AMMOSCIA LA BANANA” “CHE BELLO FIGLIARE A 16 ANNI E RITORNARE IN DISCOTECA INSIEME ALLA TUA PROLE A QUARANTA!”.

Si è detto di tutto di questa campagna, giustamente bersagliata dal popolo di internet. Perché quindi parlarne ancora? Perché, come detto in apertura, sono confusa. Ma non (solo) per colpa mia.

L’oggetto della comunicazione in oggetto era uno, ed uno solo: “La salute riproduttiva della popolazione italiana”. Giusto? Sbagliato? A mio avviso, giusto. Innovativo? In un certo senso sì: se ci arrivo da sola che ubriacarmi tutte le sere non faccia benissimo alle mie ovaie, non è detto che sappia che attenzioni utilizzare con il mio corpo qualora decidessi di farmi ingravidare. Il fatto che si possa fare del sano sesso ricreativo senza desiderare di avere figli non nega una verità biologica fondamentale: ossia che, utero, ovaie e testicoli abbiano esattamente una potenzialità riproduttiva. Una potenzialità che può o meno essere espressa, ma che esiste, e che ci si augura funzioni al meglio quando e se ce ne sarà la necessità.

Cosa farei io se volessi fare una campagna di comunicazione sulla salute riproduttiva?

Direi alle ragazzine di farsi il pap test appena cominciano i rapporti sessuali. Inviterei all’uso del preservativo per evitare malattie sessualmente trasmissibili che – quelle sì – minacciano davvero la fertilità. Ricorderei che una gravidanza va programmata con un minimo di criterio, magari chiedendo qualche consiglio al medico. Ovviamente dando per scontato che sia solo una parte della popolazione a volere figli, o a poterne avere.

E invece?

Partire da una premessa ingiusta e continuare a sbagliare è nell’ordine delle cose.

Avere ottime motivazioni, un contenuto condivisibile, centinaia di migliaia di euro da investire e toppare tutto, tutto, ma proprio tutto è da guinness dei primati. Ed è esattamente il caso di cui ci stiamo occupando.

La campagna promossa dal Ministero della salute è un orrore dal punto di vista dello stile comunicativo, che si fa moraleggiante anziché informativo; è vagamente offensiva verso chi non può e non avere i figli quando parla del “Prestigio della Maternità” (e in effetti lo è anche verso i padri, ma non ho sentito troppe lamentele a riguardo); è un pasticcio per quanto concerne i contenuti, perché parte da una premessa (la prevenzione dell’infertilità) e ne sviluppa un’altra (la denatalità): infine, richiama il fascismo quel tanto che basta per farsi volere bene proprio da tutti.

Se dicessi ad una mia amica che non vuole avere figli “ma che dici! PREPARA UNA CULLA PER IL FUTURO! LA MATERNITÀ È UN BENE COMUNE!” mi picchierebbe.

Se ai tempi della scuola avessi fatto un tema sull’infertilità utilizzando come unica argomentazione “Scopate senza preservativo!” avrei preso un non classificato.

Purtroppo, qui non parliamo né di amici né di liceali, ma di professionisti, Cerchiamo quindi di capire dove hanno sbagliato: dal punto di vista psicologico, sociologico e comunicativo.

La dissonanza cognitiva: avresti anche ragione, ma…

La comunicazione, come ormai sa anche la nostra lavandaia, non si limita ad una semplice trasmissione di messaggi tra soggetto A e soggetto B: è una danza complicata di segnali verbali o non verbali, di interpretazioni, di contesti sociali specifici. Insomma, non siamo da soli in questa giungla di parole.

Paul Watzlawick ne La Pragmatica della Comunicazione Umana distingue nettamente il “contenuto” di una comunicazione dagli assunti relazionali in essa contenuti. Per farla breve: se ti chiedo con aggressività di portarmi il caffè lascio intendere che tra di noi ci sia una certa gerarchia, che ad una richiesta tutto sommato innocente faccia seguito un “sennò ti faccio vedere io”. Le relazioni spesso sono quelle che costruiamo noi, ma ancor di più sono in qualche modo “culturalmente determinate”.

Con il nostro capo possiamo essere più o meno formali, ma ci saranno dei paletti; con un fidanzato la confidenza fisica si trasforma anche in una certa libertà di linguaggio, and so on. Ovviamente, ci aspetteremo reazioni uguali e contrarie.

Ora, ci piace pensare che il Ministero della salute sia una garanzia per quanto riguarda il nostro benessere. Non ci aspettiamo una comunicazione sbarazzina. Non ci aspettiamo che ci faccia la morale. Ci aspettiamo che ci porti dei dati, e che da lì emergano delle inferenze corrette. Ci aspettiamo di essere informati, e giacché si tratta di un interlocutore autorevole, anche delle soluzioni ad una serie di problemi.

La campagna del Ministero non fa nulla di tutto questo: tenta la strada della simpatia, ma lo fa su un terreno che definire minato è dir poco, e per di più omettendo quelli che è il più grande ostacolo odierno alla genitorialità: un welfare praticamente assente.

Tantissime donne sono costrette a procrastinare la maternità per via dell’incertezza lavorativa?

“Corri, che tra un po’ il tuo tempo finirà!”

Ora, tutti noi sappiamo che prima si fanno i figli e meglio è (per quanto il mito dell’orologio biologico sia attualmente messo in discussione): ricordarlo con soldi pubblici, oltre ad essere uno spreco di risorse, è assolutamente inutile, perché ribadisce il già noto (anche a chi ad un figlio ha dovuto rinunciare).

Le mamme, le nonne non fanno che dircelo: perché il Ministero della Salute dovrebbe fare lo stesso?

Quindi abbiamo: un’affermazione formalmente corretta, anche se espressa in modo sgradevole; un ente esterno dal quale ci aspettiamo un certo tipo di comunicazioni, mentre ne arrivano altre; da una parte, la consapevolezza che un discorso sulla salute riproduttiva sarebbe opportuno, dall’altra la constatazione che è il nostro contesto storico ad impedirci un certo tipo di prospettive.

Questo ci fa sentire feriti, ma anche perplessi; nessuno ci sta dicendo cose false, eppure non hanno ragione loro. Questa sensazione di sfasamento si chiama in psicologia “dissonanza cognitiva”: una serie di affermazioni palesemente conflittuali tra loro e con il nostro sistema culturale vengono poste al centro del dibattito pubblico con una potenza di mezzi che neppure immaginiamo. Colpo da maestro, rievocare con motti come “Riscopriamo il prestigio della maternità!” un ventennio del quale nessuno ricorda cose bellissime. Insomma, se non puoi vincerli, confondili. Direi che ci sono riusciti.

La comunicazione paradossale: è difficile mantenere un figlio, quindi fai un figlio.

Ma quindi stai facendo anche tu il processo a quattro cartoline!”.

Lo ammetto, la tentazione ci sarebbe ma sono la prima ad ammettere che le premesse del Piano Nazionale della Fertilità sono ragionevoli, di buon senso. Sembrano le parole di tua zia, di un tuo professore “Per favorire la natalità, se da un lato è imprescindibile lo sviluppo di politiche intersettoriali e  interistituzionali a sostegno della Genitorialità, dall’altro sono indispensabili politiche sanitarie ed educative per la tutela della fertilità che siano in grado di migliorare le conoscenze dei cittadini al fine di promuoverne la consapevolezza e favorire il cambiamento”.

Occhei, va bene.  Sappiamo tutti che in Italia non nascono bambini, non ho bisogno di dati. Ma perché dovrebbe essere un mio problema? “La combinazione tra la persistente denatalità ed il progressivo aumento della longevità conducono a stimare che, nel 2050, la popolazione inattiva sarà in misura pari all’84% di quella attiva. Questo fenomeno inciderà sulla disponibilità di risorse in grado di sostenere l’attuale sistema di welfare, per effetto della crescita della popolazione anziana inattiva e della diminuzione della popolazione in età attiva”.

Ok, chiaro: ne va della mia pensione. E quindi? “Il peso della cura dei bambini è molto rilevante per le donne più istruite e con lavori di responsabilità che si confrontano con alti costi opportunità e si trovano a dover ridurre la loro attività lavorativa. Il ritardo alla nascita del primo figlio implica un minor spazio di tempo, ancora disponibile, per raggiungere il numero desiderato di figli”.

Ora, non so a voi, ma a me già sta venendo il mal di testa.

Al di là della confutabilità dell’assioma titolo di studio elevato = lavoro di prestigio – rispetto a questo siamo disincantati da parecchio – nonché del fatto che, traducendo letteralmente questo concetto, sembrerebbe che i lavori per i quali è richiesta la terza media rappresentino un viatico certo per la maternità (ma sti c…di padri dove sono, peraltro?), ci ritroviamo di fronte ad un dato di fatto:

è estremamente complicato gestire figli e lavoro contemporaneamente.

Qual è la soluzione? Fare figli!

In realtà, il Piano della Fertilità diffuso dal Ministero prevede una serie di interventi, alcuni puntuali, altri più discutibili, per informare uomini e donne sui propri organi riproduttivi. Certo, ti aspetteresti un piano di Welfare con asili nido e garanzie lavorative per le mamme, ma è pur sempre “solo” il Ministero della Salute.

A livello comunicativo tuttavia emerge solo l’aspetto paradossale della vicenda: una forte incongruenza tra il discorso esplicito ed il livello meta comunicativo che non solo suggerisce di far figli ma anche, come abbiamo già visto, lo fa in modo moraleggiante!

Se il Ministero fosse nostra madre, potremmo parlare di “doppio legame”: da una parte una figura a noi cara ci strizza l’occhio, ci fa capire che ci capisce, ci è vicina, MA nei modi e nelle riflessioni ad alta voce ci lascia intendere che siamo comunque dalla parte del torto. No buono.

Mittente, destinatario, messaggio: che casino!

Abbiamo visto che dal punto di vista psicologico – senza scomodare troppo i vissuti emotivi legati a certi temi – la campagna per il Fertility Day presenta qualche intoppo. Ma come comunicazione tutto bene, no?

E invece no. A parte che una buona comunicazione senza un po’ di attenzione alla psicologia non andrà mai lontano, ma appare assai evidente che alla base di una pessima campagna c’è quasi sempre un brief fatto con i piedi. Insomma, manco i compiti a casa fatti bene.

Vediamo quindi di contestualizzare il lavoro svolto.

  • Mittente: Ministero della Salute
  • Oggetto: “La salute riproduttiva della popolazione italiana”
  • Destinatari: Verosimilmente, chi vuole avere figli. Attenzione, questo passaggio è delicato ed è estremamente influenzato dal contesto sociale e culturale in cui siamo immersi. Seguitemi, e vedete se vi fila.
  • Contesto: Italia, anno 2016. Siamo un paese a natalità 0 ed assolutamente privo di garanzie per la maternità. Si fanno sempre meno figli e di solito in età avanzata. Abbiamo già riflettuto sulle implicazioni di questi processi,quindi sappiamo che si parla di un campo minato.
  • Messaggio: Fate figli per l’Italia!

A questo punto io alzerei la manina e chiederei: “ma quindi il problema è che la gente non riesce fisicamente a fare figli? Quindi avremo dati sulla sterilità nel piano del Ministero, giusto?”. Sbagliato!

“Avrete dialogato con delle coppie che stanno cercando di avere figli senza riuscirci…”.

Non pervenuto.

“Ma avrete dati…”.

“Certo, guarda qua! 1,3 figli per coppia in Italia!”.

Dati sulla natalità. Che possono essere ricollegati a problemi di sterilità, ma non possiamo sapere in quali termini. Non si fanno figli perché non ci si riesce? Perché non ci sono soldi? Perché non se ne vogliono? Non è dato saperlo. Quindi, che si fa?

Siccome volere è potere, si prova a convincere chi non ha ancora figli a provarci. Quindi, si cambiano a 180° i destinatari della campagna. Non parleremo con chi magari quelle informazioni le cerca, no! Ricorderemo a chi non può, o non ha intenzione di fare figli che la maternità è un bene comune!

Massì, ho 35 anni e nessuna intenzione di avere figli! Dimmelo, che sono manchevole verso il mio paese!

Hai proprio ragione, Bea! I miei spermatozoi sono flosci proprio come quella buccia di banana!

Quante coppie sarebbero state felici di essere coinvolte in una campagna informativa sulla fertilità? Tante.

Quante per una sulla natalità? Nessuna, se me la imposti così.

Insomma, se la mamma dei cretini è sempre incinta, magari è meglio non spingerla a continuare.