Il 2016 non passerà alla storia come uno degli anni più fortunati di sempre: dal 10 gennaio, giorno della morte di quell’icona musicale che è David Bowie, sembra che la signora con la falce si sia data particolarmente da fare, ponendo fine all’esistenza terrena di icone del pop, capi di stato e attori con una ferocia inaudita.
Qualche nome sugli altri: Bud Spencer, Ettore Scola, Gianni Rondolino, Umberto Eco, Marta Marzotto, Anna Marchesini, Zaha Hadid, Gianroberto Casaleggio, Gene Wilder, Ermanno Rea, Carlo Azeglio Ciampi, Dario Fo, Prince, Tina Anselmi, Fidel Castro, Leonard Cohen, George Michael and least but not last (anzi, speriamo last) Carrie Fisher. Molti di questi personaggi hanno rappresentato un punto di riferimento importante per parecchi di noi; alcuni di essi sono stati veri e propri “simboli” e privarsene rende il nostro mondo un po’ più duro.
Come dice Michele Seta, indimenticato coprotagonista de L’Amico del Cuore “Tutti quanti amma murì”: la sensazione è che però nell’anno che si sta concludendo le quote – morte abbiano superato ogni limite.
Ma è davvero così?
I morti del 2016 sono davvero così tanti?
Se il peso delle perdite dell’anno appena trascorso è indubbiamente significativo, forse dovremmo rivedere la percezione “numerica” di quello che è avvenuto negli ultimi 12 mesi. In altre parole: tendiamo a sovrastimare il numero delle morti perché:
- I media prestano maggiore attenzione a queste notizie
- Sono scomparsi molti personaggi “iconici”
- Ne parliamo di più
La compresenza di questi tre fattori ci lascia cadere in quelli che in psicologia si chiamano “bias cognitivi”, ossia strategie di pensiero che non poggiano sui fatti ma su nostre convinzioni ed autoinganni.
La verità è che l’essere umano è dannatamente pigro e, laddove può, mette il pilota automatico per pensare il meno possibile: in un mondo come il nostro, dove un gran numero di cose si ripresenta in maniera spesso identica, affidarsi ad euristiche di pensiero non soltanto è possibile, ma è alla base di molti processi di apprendimento.
Oggi, domani e fino alla fine dei tempi, 2 per 2 farà 4, e alla notte seguirà il giorno:
possiamo quindi ragionevolmente utilizzare questi concetti per fare di calcolo agevolmente e programmare, che so, una gita al mare, senza paura di essere smentiti. Quando mancano regole incontrovertibili, o leggi di natura, qualunque euristica sarà un azzardo: quando si parla di notizie di interesse generale, poi, il numero illimitato di voci che giungeranno alle nostre orecchie toglieranno ogni attendibilità ai nostri ragionamenti. In altre parole: creiamo degli schemi laddove non ci sono. Vediamo qui qualche esempio di bias cognitivi che ci accompagnano quando commentiamo l’ennesima morte celebre.
L’euristica della disponibilità: più una cosa è avvenuta, più avverrà
“Vai, e insegna agli angeli a cantare/ a cucinare/a tirare di scherma”. Quanti di noi hanno trovato sulla propria bacheca di facebook decine, se non centinaia di post del genere? I nuovi mezzi di comunicazione offrono un riverbero straordinario a decine di fatti e opinioni che solo 20 anni fa avremmo ignorato. La rapidità con cui i giornali on line aggiornano le proprie pagine ha portato ad un aumento enorme delle notizie che giorno dopo giorno vengono diffuse: tra queste, quelle dei lutti – soprattutto se di figure iconiche per più persone – hanno un’inevitabile eco. Uno dei bias cognitivi più frequenti è l’euristica della disponibilità, ossia la tendenza ad assegnare maggiori probabilità ad eventi molto improbabili, ma che richiamano maggiormente la nostra attenzione. Molti di noi – me compresa – si sono lanciati in improbabili toto-morto per l’anno 2016, chiedendosi chi sarebbe stato il prossimo a lasciarci. Con quali basi? Nessuna, ma ormai i vip sembravano sparire come mosche…
L’effetto alone: i personaggi famosi sono mortali, anche se non si direbbe
Alla celebrità attribuiamo, fin dalla notte dei tempi, poteri miracolosi.
Gli antichi greci innalzavano al rango di semidei i loro eroi: il terzo millennio ci ha reso più dissacranti ma non per questo meno superstiziosi. Il personaggio famoso non vive come noi, non mangia come noi, e quando muore c’è sempre qualcosa dietro. Il fatto che qualcuno abbia fatto qualcosa di straordinario, o almeno attenzionabile nella propria esistenza, gli dà uno status di “superumano”: è questo che chiamiamo effetto alone. La scomparsa di icone dei nostri tempi come Bowie e Prince ha messo in discussione un nostro assunto implicito, che sentiamo la necessità di riconfermare: per questo le morti celebri ci colpiscono tanto, spesso anche più del valore specifico che il defunto ha avuto nella nostra esistenza.
L’Effetto Rosenthal: chi cerca trova. Anche il morto
Allora, abbiamo appreso che muoiono anche le persone famose. Ne sono morte parecchie, peraltro. Cosa troveremo sui giornali? Altre notizie di morti. Questo avviene per due ragioni:
La prima è che noi siamo naturalmente attratti da quello che conferma il nostro pensiero.
Robert Rosenthal, il primo a studiare l’omonimo effetto (detto anche “effetto pigmalione” o della “profezia che si autoavvera”), mostrò come, dando a uno sperimentatore i topolini selezionati casualmente e informandolo che sono dotati di scarsa capacità, questi risultino tali ai test sperimentali. Le stesse cavie, presentate successivamente allo sperimentatore come molto intelligenti, producono risultati eccellenti. Quindi, se noi pensiamo che nel 2016 sta morendo chiunque, troveremo sui giornali ogni minuscolo trafiletto sulle morti celebri.
La seconda è che i media ci “accontentano”
Vi è mai capitato di cercare su un computer pubblico dell’intimo carino, rinnovare l’accesso e trovare pubblicità di lingerie a piè sospinto? Ecco, sappiamo tutti che il web non dimentica: paghiamo i servizi che i motori di ricerca ci danno gratuitamente cedendo un’impressionante mole di informazioni personali. Dal punto di vista commerciale, questo permette di ricostruire un profilo quasi perfetto delle nostre abitudini ed inclinazioni: ad ogni click, salirà quindi la probabilità che appaiano pubblicità a tema con le nostre preferenze, e che quindi si compri qualcosa. Questo avviene anche con le notizie che cerchiamo, chiaramente. Infine, molto più semplicemente, i giornali ripropongono con maggiore frequenza le notizie più pregnanti per i propri lettori: le morti celebri fanno parte di queste.
In breve:
Quando siamo chiamati a stimare la frequenza di un evento, spesso siamo distratti da una serie di elementi che non hanno nulla a che fare con i fatti: l’esempio dei morti del 2016 ci dimostra come bastino pochi meccanismi cognitivi ad offuscare la nostra oggettività. Quando parliamo di informazioni tutto sommato poco rilevanti per il nostro benessere, una stima più o meno precisa non ci creerà particolari problemi: se, tuttavia, applichiamo le stesse euristiche per prendere decisioni significative, le conseguenze possono essere ben più gravi. Prestiamo quindi attenzione ai nostri ragionamenti interiori: è vero, non sempre abbiamo tutte le informazioni che ci servirebbero per assumere una decisione davvero ponderata, ma è importante verificare che quanto già sappiamo sia reale, o quanto meno il più vicino possibile al vero.